E' morto all'età di 94 anni il grande attore francese, Michel Piccoli (SCHEDA ANSA CINEMA). Nella sua vita Piccoli ha lavorato con i piu' grandi registi internazionali, da Luis Bunuel fino a Claude Sautet, Marco Ferreri e Nanni Moretti.
Addio a Michel Piccoli, il provocatore in guanti bianchi (di Giorgio Gosetti) C'è una tenerezza amicale nel fatto che la notizia della morte di un gigante come Michel Piccoli sia stata resa nota, con sei giorni di ritardo, da un altro monumento del cinema francese come l'ex presidente del Festival di Cannes, Gilles Jacob in accordo con la volontà della famiglia. Michel e Gilles erano amici veri da una vita; al critico e organizzatore culturale Piccoli aveva affidato nel 2015 il suo bilancio umano e artistico nel volume a quattro mani "J'ai veçu dans mes rèves", un racconto così sommesso e pudico che restituisce in pieno lo stile di un maestro che ha sempre privilegiato i ruoli "laterali", le sfumature in penombra, le interpretazioni corali anziché il riflettore del primo attore. Con gli anni gli era piaciuto smorzare la sua fisicità virile, in favore di una ambiguità sfuggente che in vecchiaia aveva infine ceduto il passo a un calore umano mai mostrato prima.
L'appellativo di maestro non gli sarebbe piaciuto, ma fotografa bene una carriera tesa fino allo spasimo nella ricerca della perfezione, della giusta misura, dell'introspezione fatta movimento, grazie all'uso del corpo e della mimica ancor prima dell'uso della voce e del gesto solenne. Figlio di un violinista ticinese con ascendenti italiani e di una pianista francese, Michel Piccoli nasce a Parigi il 27 dicembre 1925, nel 13 arrondissment, vecchio quartiere operaio sulla riva sinistra della Senna. Il suo talento per le arti è precocissimo e i genitori lo incoraggiano alla musica e alla recitazione al "Cours Simon" una delle più prestigiose scuole parigine, fondata nell'anno della sua nascita. Debutta a 20 anni a teatro e nello stesso momento ottiene la prima parte al cinema in "Sortilegi" di Christian Jacques. Entrerà presto in compagnia con due mostri sacri del teatro come Madeleine Reynaud e Jean-Louis Barrault, ma farà la vera gavetta accettando mille ruoli anche nel cinema dell'epoca con bravi artigiani come Luis Daquin ("Le point du jour") e grandi autori come Jean Renoir ("French cancan"). Tra i suoi maestri in scena ci sono Jacques Vilar, Peter Brook, Patrice Chereau. Sarà una lunga trafila che però gli frutterà una duttilità di stile e una popolarità crescente, consolidata da sceneggiati televisivi di successo. Comunista fin dall'adolescenza, legherà con i grandi intellettuali della Rive Gauch: la sua seconda moglie Juliette Gréco, Sartre e Signoret in testa.
Ateo convinto, irrequieto e appassionato, troverà in Luis Bunuel il mentore ideale che, con perfida ironia, gli affiderà il ruolo del prete ne "La selva dei dannati" (1956). Da quel momento la sua ascesa sarà sistematica e costante, senza mai abbandonare la passione per il teatro, con speciale predilezione per gli autori contemporanei e i giovani di talento. Al cinema ben presto si ritaglia un ruolo nel pantheon del "polar" (il poliziesco alla francese) passando con disinvoltura da poliziotto a criminale nei film di Pierre Chenal, Jean-Pierre Melville ("Lo spione", 1962), Costa-Gavras, René Clement. Di pari passo lega con gli autori della Nouvelle Vague (Alain Resnais e Agnès Varda in prima fila), anche se la notorietà internazionale gli viene da far coppia con Brigitte Bardot ne "Il disprezzo" di Jean-Luc Godard (1963) e poi con Jane Fonda ne "La calda preda" di Roger Vadim (1966). Viaggia spesso tra Francia e Italia (che diverrà la sua seconda patria) grazie al sistema delle coproduzioni e presto diventa una presenza insostituibile nel cinema francese che ritrae con ferocia e tenerezza la borghesia imprigionata dalle convenzioni e dal perbenismo (i film con Chabrol e Sautet). Nel 1967 ritrova per la terza volta Bunuel in un film che farà scalpore ("Belle de jour" con Catherine Deneuve e Fernando Rey) e diventerà il suo alter ego cinematografico per tutta l'ultima parte della storia artistica del genio spagnolo. All'italiano Marco Ferreri (e non è un caso) sarà anche più fedele in ben 9 film da "Dillinger è morto" a "La grande abbuffata" a "Come sono buoni i bianchi"; in vecchiaia troverà nel portoghese Manoel De Oliveira il suo ultimo mentore. Ma in mezzo non c'è regista di vaglia che non lo scelga, chiami, corteggi. La lista è talmente lunga e imponente che riassume la storia del cinema contemporaneo: da Tavernier a Rivette, da Doillon a Carax (per citare i francesi) fino a Alfred Hitchcock ("Topaz"); da Marco Bellocchio (premio come miglior attore a Cannes per "Salto nel vuoto" insieme alla sua partner Anouk Aimée) a Elio Petri ("Todo Modo"), da Angelopoulos ("La polvere del tempo") a Nanni Moretti (il profetico e folgorante "Habemus Papam" con cui vince sia il David che il Nastro d'argento).
Gli piaceva però mettersi in gioco con autori nuovi e storie apparentemente lontane dalle sue corde come dimostra l'elegante "Il generale dell'armata morta" di Luciano Tovoli (da lui anche sceneggiato nel 1983), il malinconico "Giardini d'autunno" di Otar Iosseliani (2006), il suggestivo "I tetti di Parigi" di Hiner Salem (per cui vinse il Pardo alla carriera a Locarno nel 2007) o il delirante "Holy Motors" di Leo Carax del 2012. Con "Le gout des myrtilles" di Thomas De Thier del 2014 saluta il mondo del cinema. In seguito si era ritirato in un severo maniero in Normandia con la sua ultima moglie Ludivine Clerc e i due ragazzi adottati, Inord e Missia. Ormai si mostrava di rado se non per le battaglie in favore di Amnesty International, del sempre sostenuto Partito Socialista, del suo grande amore, la Croisette di Cannes. In Italia l'abbiamo visto nel 2012 quando venne a Bari per ritirare il premio come miglior attore al Bi&Fest dopo "Habemus Papam". Molto spesso ha vestito i panni di personaggi che non gli assomigliavano nella realtà: viscidi borghesi nascosti dietro le buone maniere, intellettuali segretamente nevrotici, felpati servitori dello Stato capaci di nascondere verità e onore sotto il tappeto del bon ton. Solo in vecchiaia ha potuto liberare la sua anima anticonformista, quella genuinità da bambino e provocatore che tanto invece amava coltivare in sé. Come i più grandi è sempre stato capace di nutrirsi alla fonte del fanciullo che difendeva dalle tentazioni della celebrità e del successo di facciata. Per quei lampi di nostalgia e felicità che a tratti gli attraversavano lo sguardo e l'ampia fronte da vecchio leone indomito rimane il grande uomo che chiunque lo abbia incontrato - nella vita, sul palcoscenico o sullo schermo - oggi ricorda con rimpianto.
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