Canale Energia - Sette anni dopo il disastro nucleare di Fukushima, i livelli di radiazioni rimangono troppo alti per un ritorno sicuro alle proprie case da parte dei cittadini giapponesi evacuati.
Lo rileva Greenpeace, che ha effettuato un sopralluogo nei luoghi dell’incidente riuscendo anche, grazie alla collaborazione degli abitanti locali, a fare dei rilievi in alcune case della zona altamente contaminata di Namie.
Nelle zone evacuate ci sono ancora radiazioni
Proprio nell’area dei centri di Namie e Iitate, dove è stata ordinata l’evacuazione il marzo scorso, i livelli di scorie nucleari rimarranno ancora al di sopra di 1 millisievert (mSv) all’anno (soglia massima di esposizione per la salute umana riconosciuta internazionalmente) per alcuni decenni, secondo l’associazione ambientalista. Il limite è stato fissato dal governo ipotizzando un’esposizione all’aria aperta media di 8 ore al giorno e tenendo conto del fatto che, dentro abitazioni in legno, l’uomo è schermato dalle radiazioni.
Nella “exclusion zone” (dove cioè è difficile ritornare) intorno a Namie, Greenpeace ha stimato che solo alla fine del secolo ci si riavvicinerà agli obiettivi del governo giapponese, il quale è ben consapevole dei rischi di cancro e altri problemi di salute che anche bassi livelli di radiazione (1-5 mSv/anno) possono portare.
Il Giappone dovrà rivedere l’attuale limite di contaminazione
Purtroppo, il Giappone ha dovuto ammettere il fallimento del processo di decontaminazione e sarà costretto a rivedere l’attuale target di lungo termine di 0,23 micro Sv/ora, portandolo, si pensa, a 1 micro Sv/ora.
L’Autorità per la regolazione nucleare nazionale, infatti, aveva dichiarato a gennaio che gli attuali limiti “potrebbero ostacolare il ritorno a casa delle persone colpite”.
In abitazioni nel raggio di 25-30 km a nord-ovest della centrale di Fukushima, i rilievi fotografano valori nel range 1,3-3,4 mSv/ora, che addirittura sono superiori nelle vicine foreste e fattorie (anche 17 mSv/anno).
Una casa nel centro di Namie, sottoposta a estese opere di decontaminazione, presenta livelli radioattivi medi di 1,3 micro Sv/ora, con punte di 5,8.
A Obori, località a 20 km dalla centrale, si arriverebbe addirittura a 101 mSv/anno.
E ancora, a meno di 50 metri dalla strada pubblica Route 114, sono stati registrati livelli di 11 micro Sv/ora a un metro sottoterra e di 137 micro Sv/ora a 0,1 metri di altezza. Rapportati con lo standard di altezza utilizzato per le altre misurazioni di un metro (è stato notato che a un’altezza più elevata corrispondono radiazioni più alte), questi livelli sono davvero pericolosi.
Gli stessi addetti alla decontaminazione, avvisa Greenpeace, sono costretti a subire radiazioni, facendo un lavoro che permette di “pulire” solo una piccola frazione dell’aria.
Per rendere un’idea dell’emergenza, si pensi che livelli di contaminazione del genere porterebbero, in un impianto nucleare, ad azioni immediate richieste dall’Autorità per la tutela della salute umana e dell’ambiente. Il governo giapponese, invece, non si sta comportando in questo senso, anzi, sottolinea Greenpeace.
L’analisi di un’altra casa a Iitate ha mostrato, a partire dal 2016, una decrescita molto lenta dei valori radioattivi e addirittura un incremento degli stessi, cosa che porta a galla il fantasma della ricontaminazione, possibile per la migrazione di radionuclidi dalle vicine foreste altamente contaminate del versante montuoso.
Il ritorno a casa per gli abitanti non è possibile. L’intervento dell’ONU
Il dramma per la popolazione abitante nell’area è evidente, e solo il 3,5% delle 27.000 persone che abitavano l’area nel marzo 2011 sono tornate a casa.
La situazione ha attirato l’attenzione anche dell’ONU. I governi degli Stati membri di Austria, Portogallo, Messico e Germania hanno chiesto al Giappone di rispettare i diritti umani degli sfollati di Fukushima e adottare misure forti per ridurre i rischi di radiazioni per i cittadini, in particolare donne e bambini, e per sostenere pienamente gli sfollati.
La Germania, in particolare, ha invitato il Giappone a tornare a radiazioni massime ammissibili di 1 mSv all’anno, mentre l’attuale politica governativa giapponese è di consentire esposizioni fino a 20 mSv all’anno. Se questa raccomandazione dovesse essere adottata, il governo nipponico non potrebbe far rientrare la popolazione nelle aree contaminate.
Parola all’esperto
Sulla situazione di contaminazione in Giappone abbiamo chiesto un commento ad Alessandro Dodaro, esperto di sicurezza nucleare dell’ENEA, per il quale “i valori di rateo di dose (che è una grandezza proporzionale al danno biologico subito da un particolare organo o tessuto quando viene investito da una radiazione e dipende dal tipo di radiazione e dalla sua energia) sono stati misurati con strumentazione non idonea alla sua misura, a meno che non siano disponibili tipologia ed energia della radiazione rivelate: lo strumento, infatti, trasforma il rateo di particelle rivelate (qualunque esse siano) in rateo di dose sulla base di una calibrazione effettuata in laboratorio, in condizioni neanche paragonabili a quelle in cui è stato utilizzato in campo” ; dice l'esperto Enea basandosi su valutazioni di massima riferite all'enorme mole di dati ufficiali reperibili sui siti IAEA, OCSE, UNSCEAR, WHO ecc., che, specifica, forniscono valori di dose ambientale molto inferiori rispetto a quelli del rapporto Greenpeace.
Inoltre, ha rimarcato Dodaro, “questi strumenti sono poco stabili e necessitano di decine di secondi per stabilizzarsi su un valore utilizzabile, sia pure con tutte le tutele sopra richiamate, per la misura di dose: il documento dichiara misure da 1 secondo, quindi soggette a fluttuazioni statistiche che non le rendono, a mio avviso, significative”.
Sui tempi per cui persisterà la contaminazione delle aree interessate, ha aggiunto l’esperto dell’Enea, “dando per accertato che si tratti ormai in massima parte di Cs-137, anche se non ho modo di fornire numeri ufficiali, posso solo dire che circa ogni 30 anni la presenza di Cs-137 si dimezza, quindi fra 50 anni ci saranno valori che si aggirano intorno a un quarto di quelli immediatamente misurati dopo l’incidente“.