Nei siti americani dove si estraggono gas e petrolio con la tecnica non convenzionale del "fracking" si verificano migliaia di fuoriuscite di varie sostanze e liquidi, dagli idrocarburi ai fluidi che vengono impiegati nella fratturazione idraulica delle rocce. Lo documenta uno studio della Duke University, pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology.
I ricercatori hanno rilevato oltre 6.600 perdite in quattro Stati in un arco di tempo di dieci anni (tra il 2005 e il 2014).
La situazione più critica in North Dakota, dove si concentra il 67% delle fuoriuscite (oltre 4.400 incidenti), seguita da Pennsylvania (circa 1.300), Colorado (476) e Nuovo Messico (426). Una disparità che in parte potrebbe riflettere normative diverse nei vari Stati: in North Dakota ad esempio le aziende devono segnalare anche fuoriuscite minori (dai 42 galloni in su). Ogni anno, affermano gli scienziati, tra il 2 e il 16% dei pozzi di "fracking" registrano fuoriuscite.
Il "fracking" (o fratturazione idraulica) consiste nell'"iniezione" di enormi volumi di acqua, sabbia e sostanze chimiche nel sottosuolo per fratturare le rocce - per effetto della pressione - ed estrarre così petrolio e gas. Un metodo che ha sollevato timori, ad esempio nei confronti delle sostanze chimiche, che possono inquinare le falde acquifere.
I risultati di questo studio sono più negativi dei calcoli fatti in precedenza dall'Environmental Protection Agency (Epa), l'equivalente del nostro ministero dell'Ambiente, che aveva indicato 457 perdite per otto Stati tra il 2006 e il 2012.
L'analisi dell'Epa, secondo la Duke University, era limitata perché non prendeva in considerazione il ciclo completo di produzione dei siti di estrazione.