BRUXELLES - Invece di ricompattare l'Europa, il piano Juncker per rilanciare la crescita, per ora, la divide. Quel "sostegno forte" che la Commissione si aspetta dal vertice europeo di giovedì e venerdì prossimi non sarà che un'accoglienza di prammatica, carica di dubbi. E lo scetticismo che aleggia in tutte le capitali, non solo in quelle che più hanno spinto la Commissione ad agire in fretta come l'Italia, è destinato a durare almeno per qualche mese, finché la Commissione non chiarirà i dettagli di quello che ora è soltanto un contenitore vuoto.
Del piano di investimenti, infatti, si conosce soltanto la portata: in tre anni dovrebbe riuscire a mobilitare 315 miliardi di euro, partendo da un capitale di base di 21 miliardi, di cui soltanto 8 dal bilancio europeo. Il tutto grazie ad un meccanismo di leva finanziaria che funzionerà solo se si troveranno gli investitori disposti a metterci il 'cash'.
Se per molti si tratta di una potenza di fuoco piuttosto incerta e variabile, per Jean Claude Juncker è un punto di forza del suo piano: "Non contiamo su fondi che l'Europa non ha, per questo il piano è credibile e realizzabile", ripetono da settimane il presidente e il suo vice responsabile del piano, Jyrki Katainen. Ed è infatti realizzabile anche senza il contributo degli Stati, una eventualità che la Germania avrebbe respinto. I contributi saranno solo volontari, e la Commissione dovrà cercare di incentivarli.
Ma è proprio questo il primo problema che rende cauti gli Stati, tanto che finora non hanno voluto sbilanciarsi e dire se parteciperanno o meno al piano su cui Juncker ha puntato tutto. Gli incentivi al piano sono piuttosto 'poveri': i contributi dei Paesi saranno 'neutri' dal punto di vista del bilancio, cioè non appesantiranno debito e deficit. L'Italia, ad esempio, punta più in alto e vorrebbe che lo scorporo venisse esteso anche alla parte nazionale dei progetti co-finanziati dalla Ue, che pure potranno entrare nel piano Juncker. Ma Katainen ha già chiuso la porta: comporterebbe un cambiamento delle regole, e per ora non si fa.
Per lo Stato che volesse investire poi, si porrebbe un secondo problema: al momento, non avrebbe certezza che il suo investimento andrà ad un progetto a cui tiene, perché la 'cassa' dove confluiscono i fondi è una sola e finanzierà solo i progetti scelti, ma non dagli Stati. Sarà un'autorità indipendente a fare la selezione, e non è detto nemmeno che la lista compilata finora dalla 'task force' Bei-Commissione-Stati, con una novantina di progetti italiani, sarà utilizzata come bacino.
Quindi non c'è alcuna certezza che saranno selezionati progetti importanti per l'Italia come i porti di Genova e Venezia, il nodo di Palermo, la Salerno-Reggio Calabria, il Terzo Valico, la Torino-Lione, il Piano Scuola, la banda larga e le interconnessioni elettriche. Cioè quelli indicati dal Governo alla 'task force'. Vedranno la luce solo i "progetti strategici in settori prioritari", ha spiegato la Commissione, ma fonti europee fanno notare che non è stata nemmeno fornita una definizione del concetto, togliendo quindi agli Stati ancora più certezze su quello che il piano potrà fare per loro.