Non sono le macerie e neanche il ricordo della morte, a fare davvero paura. Non sono gli sguardi della gente che in fondo chiede solo certezze e i lamenti di chi ha perso tutto, a stringere il cuore. Quello che lascia senza fiato, è il silenzio di borghi e paesi. Spesso, duro, lungo. Innaturale.
Lo cominci a percepire sulla Salaria, molto prima del ponte della Rinascita che porta ad Amatrice, lo respiri a fondo nel cratere spettrale di Pescara del Tronto, ti si piazza sullo stomaco nel centro deserto di Arquata. E d'un tratto capisci: un anno fa il terremoto non si è portato via soltanto 299 vite; quel maledetto ha ammutolito il cuore d'Italia. Non ci sono più sorrisi, storie, tradizioni tra quelle stradine medievali, non c'è più il vociare ad ogni ora. C'è solo l'assenza. Rotta dal frinire delle cicale e dai passi dei gatti, unici abitanti di questo nuovo mondo fatto di macerie.
Il 24 agosto, da queste parti, i bambini correvano per le strade, le famiglie si ritrovavano nei giardini di casali e fattorie sparsi nei boschi della Laga, la luna nell'aria frizzante della sera rischiarava campanili, torri e palazzi storici. Non c'è più nulla di tutto questo, tra Lazio e Marche.
Chi dice però che non si è fatto niente, non racconta la verità. Chi sostiene che c'è solo morte e disperazione, mente.
Chi afferma che lo Stato, le istituzioni, hanno abbandonato questa gente, mente. Perché invece tra Amatrice e Arquata del Tronto molto si è fatto: le case provvisorie, ancora non per tutti ma per molti sì, la ripresa di diverse attività produttive e commerciali, le nuove scuole, la gente che silenziosamente ricomincia a vivere stringendosi tutt'attorno ai borghi distrutti. Non mente, invece, chi dice che c'è ancora molto da fare. E ci vorrà tempo, molto tempo. Perché la devastazione di un terremoto come quello che il 24 agosto ha colpito queste terre non si cancella in un anno e nemmeno in tre. La sintesi l'ha fatta il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella sua ultima visita. "Sono stati fatti passi avanti incoraggianti - ha detto - che non cancellano certo le cose che occorre ancora fare, quello che manca e le lacune che ci sono".
La prima, di queste lacune, è la presenza asfissiante delle macerie. Migliaia di tonnellate, montagne di detriti al posto di quelli che erano i centri storici dei paesi. Il problema non è certo di facile soluzione, vista la necessità di trovare siti idonei e di definire le modalità di rimozione con i privati cittadini, che avevano case e ora si ritrovano un cumulo di pietre in cui è sepolta tutta la loro vita. Ma è evidente a tutti che fin quando quelle montagne non spariranno dalla vista dei terremotati sarà impossibile parlare di rinascita.
Amatrice, anche in questo, è il simbolo. Attorno al centro storico la vita la vedi affermarsi prepotente, con tutte le gioie e i problemi che si porta appresso. Poi arrivi davanti a Sant'Agostino, la chiesa all'inizio del centro antico che ormai è soltanto la facciata sbrecciata chiusa in una gabbia di tubi d'acciaio, e trovi solo loro, le macerie. E quel silenzio che ti toglie il fiato. L'intero borgo è un gigantesco cimitero di pietre, cemento, materassi, elettrodomestici, vestiti, mobili, macchine. Alto tre metri e compattato dalla pioggia e dalla neve dei mesi scorsi. Non si riconosce più nulla, gli unici punti di riferimento rimasti sono la torre civica, le mura di San Francesco e parte della torre di Sant'Egidio, che prima del terremoto era il museo civico. Nient'altro. Del palazzo rosso rimasto miracolosamente in piedi quella notte, oggi resta la tromba dell'ascensore che spunta dalla montagna di macerie e si staglia nel cielo blu; dell'hotel Roma non c'è più neanche il basamento di cemento su cui poggiava, solo la vista della vallata e il ricordo dei morti. A piazza Sagnotti, che è il posto dove le case popolari si sono sbriciolate come fossero di cartapesta uccidendo oltre 20 persone, assieme ai detriti resta una piccola spoon river sotto un vecchio platano: una macchina da cucire Necchi, dei dischi, delle bottiglie di spumante intatte, dei bottoni. A poca distante uno dei cartelli disseminati da Sergio Pirozzi, il sindaco, per tutto il paese: "no selfie, luogo di rispetto".
Le macerie stanno pure nei cimiteri. In quello di Sant'Angelo, sulla collina accanto ad una quercia secolare ci sono i resti delle lapidi e delle tombe buttate giù dalla scossa. Le bare che c'erano dentro, invece, sono state trasferite in contenitori di zinco e in qualche modo sistemate in una grande impalcatura. I morti del terremoto e quelli di prima, tutti insieme in attesa di poter tornare a riposare in pace. A Grisciano, frazione del comune di Accumuli, che non ne possano più di macerie te lo dice prima della gente lo striscione appeso sulla Salaria: "mi nonno co na pala aveva fatto prima". Che poi, questi cumuli sono dannatamente tutti uguali e non consentono a chi ci vive in mezzo di rivendicare neppure la propria diversità con il vicino, il proprio orgoglio paesano. Ingrigendo ancor di più animi già provati. "Ogni volta che vengo qui - dice Anna Paganelli, nel deserto polveroso di San Lorenzo a Flaviano, una delle frazioni di Amatrice - è sempre peggio. Fa male vedere la tua terra ridotta così. Sono affezionata a questo posto ma speravo che almeno un po' di macerie le avessero tolte ed invece è ancora tutto qua. Mi viene male solo a guardare".
Ma il male, signora, viene anche a guardare la casa al civico 9A di via Conte Caponi. E' una piccola abitazione bianca, a due piani. E' nel centro di Amatrice e tutt'attorno a lei ci sono solo sassi e distruzione. Lei, invece, sta dritta come se nulla fosse accaduto, i vetri intatti, le tendine perfettamente in ordine come i vasi di fiori, il tetto, leggero e in legno, ancora al suo posto. Se le cose si fanno bene, non si muore per una scossa 6.0.