''Il mio mestiere è bellissimo. Ma oggi a un diplomato direi 'scegli altro'''. A parlare è Donata Zirone, 40 anni, siciliana, neo mamma e da quindici anni archeologa. Senza alcuna certezza sul futuro. Praticamente l'emblema della sua professione in Italia oggi, almeno a leggere il rapporto stilato dalla Confederazione Italiana Archeologi nell'ambito del Progetto Discovering Archaeologists in Europe. I dati raccontano di un settore da 45 mila professionisti stritolato tra precarietà e penuria di incarichi, iperqualificato e a netta prevalenza femminile. Fino ai 37 anni. Poi la forbice e i numeri si assottigliano, causa maternità e necessità di portare uno stipendio a casa. ''Io non avevo chissà quale passione - racconta Donata - Anzi, dopo il liceo ero indecisa tra chimica o fisica nucleare. Poi ho visto un vademecum dei beni culturali. Con il senno del poi è tutto diverso, ma da matricola certi ragionamenti sul futuro non si fanno''. E così via, quattro anni a Pisa, l'Erasmus in Inghilterra, laurea in archeologia classica sulle fortificazioni di Erice, triennio di specializzazione a Padova. Nel curriculum anche scavi importanti, come alla Necropoli Himera: 10 mila tombe della colonia greca riemerse a due passi da Termini Imerese. ''Il momento più emozionante, però - racconta - è stato a Prizzi, vicino Palermo, quando dalla terra abbiamo iniziato a intravedere i filari curvilinei di un teatro greco. Lì si fermano i mezzi e si prosegue a scavare anche a mani nude, per non compromettere niente. E poi si brinda, tra pale e ruspe''. Ma dal 2008, complice la crisi e poi la maternità, ''le occasioni si sono ridotte al minimo. In realtà - prosegue - molti dei problemi che riscontriamo sono di tutto il paese, non solo del nostro settore''. A fronte di un lavoro spesso anche fisicamente duro (all'aperto estate e inverno, senza strutture di appoggio), ''non esistono graduatorie: nel bene e nel male, si lavora a discrezione di un soprintendente che ti chiama o di un professore che ti segnala. Al sud è anche peggio del nord, dove almeno esiste una tradizione al consociativismo. Alcuni Comuni, iniziano a indire bandi, ma sono gare informali, spesso al ribasso''. Anche per questo gli archeologi in Italia sono iperformati: continuare studiare è un modo per rimandare l'ingresso nel mondo del lavoro che non c'è. I più fortunati un impiego lo trovano, ma ''senza alcuna possibilità di contrattazione, a tempo e a partita Iva, anche se poi ti fanno firmare entrata e uscita. Oppure un anno dopo scopri che eri in nero - prosegue Donata - Senza contare che il tempo speso a studiare ciò che ritrovi non è retribuito. O che spesso chiamano geometri per rilievi che sarebbe meglio fare con le nostre competenze''. Anche al Ministero le prospettive sono nere per il blocco del turn over. ''La maggior parte dei funzionari - dice - sono in età avanzata, ma non ci sono soldi per le sostituzioni''. Soluzioni? ''Intanto riequilibrare il numero archeologi-operai nei cantieri - risponde - Ne servirebbe uno ogni 2-3, quando invece mi sono trovata anche da sola con 25 operai. Molti miei amici, poi, sono andati all'estero, anche in Australia. Senza andare lontano, è pieno di nostri archeologi in Germania, Portogallo e in tutti quei paesi che hanno recepito la Convenzione di Valletta per cui ogni cantiere che tocca il sottosuolo deve avere un archeologo. Io non ho più l'età. Ormai sogno un qualsiasi impiego mi dia un'entrata mensile. Anche in tutt'altro campo. Perché pure con il riconoscimento della professione dai Beni culturali, le cose non cambieranno dall'oggi al domani. Forse andrà meglio per le prossime generazioni, non per noi 30-40/enni''. Ma qual è il rischio di un'Italia senza archeologi? ''Un consumo indiscriminato del suolo - conclude - quando invece la tutela del patrimonio e del paesaggio è sancita dalla Costituzione. Vorrebbe dire violare sistematicamente la legge''.