Intervista a Renzo De Stefani, primario di psichiatria a Trento, da pochi mesi in pensione. De Stefani è stato un innovatore in una professione svolta con grande passione fino all'ultimo giorno.
D. Dott De Stefani, in questi giorni la Legge 180 ha compiuto i suoi primi 40 anni. E sono già state tantissime le prese di posizioni, le riflessioni, le analisi, più o meno lucide, su questi 40 anni che dovevano cambiare radicalmente la pratica della salute mentale in Italia. Lo hanno fatto?
R. Impossibile una risposta secca, si o no. Lo hanno fatto chiudendo i manicomi, assoluta, intollerabile vergogna per un paese vagamente civile. E questo è un passaggio epocale consegnato alla storia non solo italiana ma mondiale. Ma alla chiusura dei manicomi non è seguita in tutta Italia la 'nascita' di Servizi/Dipartimenti di salute mentale all’altezza delle attese che la legge aveva messo in campo e su cui in tanti avevamo scommesso con entusiasmo e passione. Questo non vuol dire disconoscere che la 180 ha ‘permesso’ la nascita in diverse realtà geografiche italiane di Dipartimenti di salute mentale (DSM) di sicura eccellenza in grado di fornire a utenti e familiari risposte appropriate ai loro bisogni, di radicarsi nella propria comunità, di coinvolgere utenti e familiari da protagonisti nei loro percorsi di cura, di investire in abitare, lavoro e socialità, capendone l’essenzialità per (ri)dare diritti di cittadinanza ai tanti giovanni, vicini alla morte civile, che si incontrano nei DSM, di promuovere ’fiducia e speranza’ reciproca tra utenti e professionisti, due parole chiave che sempre più sono radice costitutiva per uscire il più possibile dalla malattia mentale. Il tutto sempre più ricompreso sotto il cappello di quella paroletta magica che è ‘recovery, e che sta a dire che, nonostante la malattia che a volte non si riesce a mandar via del tutto, la vita della persona può ritrovare dignità, responsabilità, valore. Ma troppo spesso sono eccellenze nate dalla passione di singoli primari illuminati, di province al’avanguardia, di politici stranamente appassionati alla salute mentale. E non è questa la strada per garantire èquità di cure a tutti in tutta Italia!
D. Qual è il suo ricordo di 40 anni fa?
R. Nel 1978 mi trovai, giovane trentenne, con 20 operatori ancora più giovani ma straordinariamente ricchi di passione e di ‘fede’ nella rivoluzione che la legge Basaglia proponeva, per 10 anni a dirigere a Cles, capoluogo di una valle trentina, un Servizio di salute mentale che divenne in poco tempo uno dei pochi riferimenti nazionali dove si cercava e si riusciva ad applicare, se pur in modo ancora pieno di difficoltà e di incertezze, lo spirito della 180. Non voglio apparire troppo presuntuoso, ma se in tutta Italia i Servizi di salute mentale avessero costruito quello che a Cles riuscimmo a far nascere, oggi certo non avremmo bisogno di una nuova legge, né dovremmo ‘confessare’, con evidente dispiacere, che l’Italia non ha saputo realizzare dappertutto il sogno di Basaglia, nonostante le eccellenze che qua e là ci sono e che ci sono riconosciute a livello internazionale. E questo apre inevitabilmente una discussione sulla quale i pareri sono molteplici e diversi. Il mio è semplice e questo scritto cerca di esprimerlo con semplicità.
D. Cosa è stato fatto di buono e cosa resta da fare?
R. L’Italia ha fatto con la chiusura dei manicomi una scelta di straordinaria civiltà e non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) da anni dica che i manicomi vanno superati e che la cura delle malattie mentali va fatta nei servizi territoriali. E su questo io non penso si possa tornare indietro. Il problema sorge quando i manicomi sono chiusi, ma i Servizi territoriali non sono all’altezza del compito che gli è stato affidato. Per questo in una realtà come l’Italia che ha chiuso i manicomi e che saputo aprire non pochi Dipartimenti di salute mentale di eccellenza la soluzione è semplice. Quello che si è fatto nei luoghi dell’eccellenza va fatto anche laddove l’eccellenza non è ancora di casa. E per farlo serve una legge nazionale che lo dica forte e chiaro, una Legge che alla 180 fornisca gambe chiare e certe, mettendo in campo con chiarezza il modello di riferimento che la ispira e gli strumenti, le buone pratiche che la devono attraversare. Perché il modello di riferimento, quello del Dipartimento di salute mentale territoriale, ce l’abbiamo e dove è realizzato correttamente i risultati si vedono senza ombra di dubbio. Ed è ancora una volta l’OMS a ricordarlo nei suoi scritti, dove richiama più volte le eccellenze italiane come esempio da copiare. Dove quel modello è zoppo, o non c’è proprio, la Legge deve dircelo. E tutti assieme, dobbiamo promuovere una seconda rivoluzione. Non sarà una rivoluzione basagliana, perché Basaglia non c’è più e perché la storia non torna mai indietro nel suo cammino. E perché altri sono oggi gli obiettivi su cui dare battaglia. Ma deve essere una rivoluzione, una rivoluzione ‘dolce e sorridente’, dove le parole d’ordine sono fiducia e speranza, fareassieme e recovery, condivisione e compartecipazione paritaria di tutti i protagonisti della salute mentale (utenti, operatori, familiari e cittadini), in una scommessa quasi altrettanto ambiziosa di quella messa in pista 40 anni fa. Tutte cose che sono alla nostra portata, che sono realizzabili. E se lo sono occorre farle, con testardaggine, con determinazione, con passione anzitutto, la stessa che aveva animato quei giovani a Cles e in tante altre parti d’Italia 40 anni fa.