Lo scorso marzo ha compiuto 30 anni. Si chiama Gerald ma tutti, nel villaggio di Archers Post, in Kenya, lo chiamano "Mario" il 'mzungu', che in swahili significa 'persona di carnagione chiara/europea'.
Una vita in silenzio, con un segreto tanto pesante quanto difficile da rivelare. Un'infanzia a combattere contro il suo aspetto fisico, contro quei lineamenti che di africano non hanno un granché, nulla di simile rispetto ai suoi coetanei e a tutti gli altri nel villaggio. Una vita a sopportare le dicerie e gli sfottò dei ragazzini, di chi diceva che lui fosse "il figlio del prete". Poi l'ammissione, la presa di coscienza e la liberazione.
"Sì, sono figlio di un missionario italiano", ammette Gerald che, dopo 30 anni, ha deciso di rompere il silenzio. Il presunto padre, il "Mario" con cui veniva chiamato da piccolo, l'ha trovato grazie alla collaborazione dell'associazione Coping International, che da anni si batte per il riconoscimento dei figli dei preti nel mondo. E' un missionario della Consolata, da anni in Kenya, che sostiene di non sapere nulla di quel ragazzo ed esclude di esserne il padre.
"Mi sono sempre impegnato a fare chiarezza ma in coscienza mi ha sempre detto di non saperne nulla - le parole del superiore generale dei Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo -. Oggi ha 84 anni e sottoporlo al test del Dna mi sembra un'opzione assurda. Posso però dire che alla fine il confratello, dopo una serie di incontri, aveva anche deciso di farlo pur di fare chiarezza, ma l'associazione ha presentato denuncia al Vaticano. E' stato irrispettoso nei miei confronti e una mancanza di fiducia. Dunque, da oggi in poi, risponderò solo alla Santa Sede".
Secondo quanto riferito da Coping International, infatti, il Vaticano avrebbe "aperto un'inchiesta" sul caso, in quanto potrebbero sussistere anche gli estremi di una violenza sessuale (la madre del ragazzo aveva 16 anni al momento del parto, ndr). Uno spiraglio potrebbe aprirsi - spiega padre Stefano - "qualora ci fosse la possibilità di tornare indietro nella denuncia trovando un accordo tra le parti".
"Il solo suggerimento di ritirare un rapporto di un presunto crimine - replica Vincent Doyle, fondatore di Coping International - o pensare che questa possa essere una possibilità mostra un atteggiamento non in linea con la 'tolleranza zero' contro gli abusi sui minori".
"Sin dalla mia infanzia sapevo che la persona con cui era sposata mia mamma non era veramente mio padre e che mio padre era un prete chiamato Mario - racconta Gerald all'ANSA -. La mia vita è stata sempre molto dura. Sono cresciuto sentendomi nella famiglia sbagliata; spesso piangevo e mi azzuffavo a scuola e nel villaggio. Mi vergognavo per essere diverso da tutti gli altri bambini".
Il suo appello è rivolto a papa Francesco. "Vorrei parlargli - dice -, lui dovrebbe avere il bisogno di sapere la realtà di essere il figlio di un prete cattolico. Il trauma, la rabbia, il dolore che molti di noi figli di preti attraversiamo. Non ho scelto di venire al mondo in questo modo e quindi è molto imprudente ed egoista per la Chiesa non riconoscere che noi esistiamo veramente e abbiamo diritti e dignità come chiunque altro". Oggi Gerald è convinto di essere il figlio del missionario e vorrebbe riconosciuti "i diritti e l'identità da italiano. Vorrei poter richiedere la mia cittadinanza".
Da qualche mese, però, l'ordine dei Missionari della Consolata ha interrotto il pagamento della sua retta universitaria, come succedeva da anni, ed è costretto a stare a casa, lontano dai banchi. "Lo aiutavamo come facevamo con tanti altri ragazzi in quanto ex seminarista - spiega padre Stefano - e non perché pensavamo potesse essere figlio di un nostro missionario. Non abbiamo mai rifiutato una collaborazione".
Oggi Gerald ha aperto una propria pagina su GoFundMe per raccogliere fondi per i propri studi. "Spero qualcuno possa aiutarmi", il suo appello, con la speranza un giorno di poter abbracciare "Mario" e poterlo chiamarlo 'papà'.
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