In questi otto anni c'è chi ha lasciato L'Aquila per le difficoltà oggettive di vivere in questa città in ricostruzione, portando la propria famiglia a vivere altrove. E c'è chi è restato per l'unicità del vivere in questa città. Nell'uno e nell'altro caso non si tratta di scelte facili.
Il centro è un megacantiere, il più grande d'Europa, e mese dopo mese svela facciate rinascimentali, di pietra bianca, appena restaurate, con criteri antisismici. Ma la maggior parte degli abitanti, a parte poche famiglie, non è rientrata nelle case del centro e neppure i negozi sono tornati, eccetto alcuni pionieri, amatori, ottimisti. E' solo tornata, da molto tempo, la movida notturna dei giovani, attirata dai pub riaperti nel centro tra palazzi puntellati, betoniere e gru che svettano nel cielo tra i palazzi vincolati.
Prima del terremoto L'Aquila era una città di provincia, d'arte e di cultura, molto vivibile. Oggi è complicato viverci. "E così andare via o restare è l'eterno dilemma - racconta Enrico De Pietra -. Sfido qualunque aquilano a non aver avuto, almeno una volta in questi anni, la tentazione di andar via". Enrico è nato e cresciuto a Rieti, poi all'Aquila ha frequentato l'Università e vi è rimasto per ragioni sentimentali, ma non solo quelle. "E stata proprio una scelta - racconta -, per l'ottima qualità della vita che c'era. Io ho proprio scelto di vivere all'Aquila e forse, perché non sono nato qui, sono anche più morbosamente attaccato a questa città".
Subito dopo il sisma gli aquilani sfollati hanno subito una dolorosissima diaspora: in molti hanno dovuto lasciare la città, trovando sistemazione altrove. Così, con la moglie e la figlia che allora aveva 9 anni, Enrico si è trasferito in provincia di Chieti. "Ma è durata poco - ricorda -, la voglia di tornare all'Aquila era più forte di noi". E così sono tornati, prima in una delle sistemazioni a disposizione nella scuola della Guardia di Finanza, poi in un alloggio del progetto C.A.S.E. (le new town). "Poi però tornare a casa nostra - ammette - ci ha cambiato la vita".
Ora la figlia di Enrico ha 17 anni, è un'adolescente, frequenta il liceo Cotugno, di cui si è scritto in questo magazine. "Questo grande problema delle scuole qui all'Aquila non sarebbe dovuto accadere", commenta il padre. E poi nel post-terremoto c'è un problema di spazi per socializzare. Per i ragazzi, come anche per gli adulti, è difficile incontrare persone: non c'è il centro dove passeggiare, la vita è dislocata in mille punti diversi e spesso in quartieri distanti o addirittura in frazioni diverse. E, a differenza di prima, si usa molto, anzi troppo, l'automobile. A differenza degli adulti, però, qui gli adolescenti di oggi non hanno mai conosciuto la vera città, con una vita aggregativa normale. Ci vorrà molto tempo. Enrico prevede con lucida amarezza che la sua generazione di cinquantenni non rivedrà la vita nel centro storico come era prima del terremoto.
Ci sono poi coloro che hanno scelto di andare via, con dispiacere, con una lacerazione interiore. "Mio figlio frequentava il primo anno al liceo scientifico Bafile, uno di quelli che da pochi mesi abbiamo scoperto avere bassi indici di vulnerabilità sismica - racconta Fabrizio Perfetti -. E così ci siamo dovuti trasferire a Pescara". Ma non è stata una scelta facile. "Ci è dispiaciuto andare via: avevamo fatto tanto per tornare all'Aquila dopo il terremoto, da una sistemazione a Pescara che pensavamo temporanea. Avevamo ricostruito casa all'Aquila, ed eravamo contenti. Ma un genitore, dopo quello che è accaduto qui, non credo possa stare con questa incertezza sullo stato delle scuole dei propri figli. E qui non ci sono prospettive: seppure si decidessero subito a rimettere a posto le scuole, ci vorranno ancora tanti anni tra progetti, bandi, appalti, eventuali ricorsi e poi con i lavori". E così Fabrizio e sua moglie ogni mattina tornano all'Aquila, dove è rimasto il lavoro, e la sera ritornano a Pescara, dove hanno la famiglia. Pendolari insomma, e non proprio per scelta.