Con una mano salviamo in mezzo al mare i migranti in fuga da guerre e dittature, per dar loro un futuro e una speranza, e con l’altra li teniamo chiusi nei Centri anche più di un anno in attesa che la burocrazia dia finalmente una risponda alle loro legittime richieste: il paradosso dell’immigrazione si compie definitivamente a Mineo, il Centro più grande d’Italia immerso tra gli aranceti della provincia di Catania e ospitato in quelli che erano gli alloggi dei sottufficiali americani di stanza nella base di Sigonella.
Mineo non è Lampedusa, il Centro dello scandalo, con i migranti costretti a dormire in terra e sottoposti all’aperto alle docce antiscabbia; e non è Pozzallo, dove chi arriva dall’Africa è ospitato in un orrido capannone freddo d’inverno e bollente d’estate, con pannelli di legno per oscurare la vista a chi sta dentro e chi sta fuori e grate di ferro fin sul tetto. Da questo punto di vista il Cara di Mineo – tecnicamente un Centro accoglienza per richiedenti asilo – è un hotel, almeno a tre stelle. Gli ospiti, che sono quattromila, vivono a gruppi di una decina in villette a due piani, divisi per etnie e nuclei familiari. Hanno a disposizione quattro mense che preparano 12mila pasti al giorno, la chiesa e la moschea, un internet point, una sorta di spaccio dove possono comprare quello che gli serve grazie ai due euro e mezzo che lo Stato gli passa ogni giorno e che vengono caricati su un badge con cui fare gli acquisti, l’assistenza sanitaria della Croce Rossa 24 ore al giorno. E ancora, possono seguire corsi di idraulica, elettronica, italiano, laboratori di cucito e sartoria; mandano i figli nelle scuole di Mineo. Possono uscire e rientrare quando vogliono. Ma non possono andare da nessuna parte. Non possono lavorare. Non possono costruirsi un futuro.
Non possono perché sono in un limbo: hanno tutti presentato la domanda di asilo politico, molti da più di un anno, e non hanno ancora ottenuto risposte. Dunque non sono né clandestini e né rifugiati. Uomini e donne con un’identità, una storia e, nella quasi totalità dei casi, un dramma alle spalle, ma senza alcun documento. Senza quel pezzo di carta che gli consenta di lavorare, per esempio. O di scegliere se restare in Italia oppure raggiungere un altro paese d’Europa dove ad attenderli ci sono i loro familiari. E non è un caso che le rivolte scoppiate nel Centro siano avvenute, tutte, per i tempi di permanenza troppo lunghi.
Il problema sono le commissioni territoriali che devono esaminare le richieste dei migranti, troppo poche per le domande già presentate, senza voler contare le 13mila arrivate solo dall’inizio dell’anno. Il ministro Alfano ha promesso recentemente che verranno raddoppiate, portandole da 10 a venti ma allo stato non è cambiato nulla. “Sto qui da un anno – dice Tesqua, che con due figlie è scappata dall’Eritrea – sto bene a Mineo ma vorrei avere un futuro, voglio sistemare le mie figlie, imparare l’italiano e trovare un lavoro. Ma senza documenti non posso farlo”.
Parole che il direttore del Cara, Sebastiano Maccarrone, sottoscrive senza problemi. “I problemi nascono per i tempi lunghi di attesa per il riconoscimento dello status di rifugiati – dice –. Da sempre ci stiamo battendo per raddoppiare o triplicare le commissioni territoriali perché è necessario snellire le procedure in tempi ragionevoli”. In media, aggiunge, i tempi d’attesa sono stimati in 8-10 mesi. “Ma se poi arriva un diniego dalla commissione e si fa ricorso ai tribunali ordinari, allora i tempi si allungano ancora di più”. E si sta chiusi a Mineo per ben più di un anno.
Come Adan, che è arrivato 13 mesi fa dalla Somalia. “Mia madre è stata uccisa da Al Shabaab, mia sorella è stata uccisa da Al Shabaab e mia moglie pure. Sono scappato se non sarei morto anche io” E cosa fai in attesa del permesso? “Lavo gratis le macchine che arrivano al Centro. Io vorrei rimanere in Italia, vorrei lavorare ma non posso finché non mi danno quella risposta”.