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I lampi di genio che salvano il mondo
I lampi di genio che salvano il mondo
Dalle protesi da 100 dollari stampate in 3D che aiutano le popolazioni vittime della guerra in Sudan al microscopio di carta perfetto per le malattie che colpiscono i paesi in via di sviluppo passando per una soluzione di acqua e varichina che 'illumina' slums e favelas in tutto il mondo, non sempre servono investimenti ingenti o laboratori all'avanguardia per aiutare chi è in difficoltà nel mondo. A volte basta il classico 'lampo di genio', corredato dalla passione e dall'aiuto di qualcuno, magari dall'altra parte del mondo.
La storia della protesi low cost inizia con un articolo pubblicato dal Time su un ragazzo di 14 anni che in Sud Sudan ha perso entrambe le braccia nel 2012 nell'esplosione di una bomba delle truppe governative, uno degli oltre 50mila amputati creati dalla guerra tutt'ora in corso. Tra i lettori c'era anche Mick Ebeling, cofondatore del centro ricerche Not Impossible Labs, che ha inventato nel 2010 gli occhiali che seguono il movimento dell'occhio permettendo alle persone paraplegiche di 'parlare' attraverso le lettere di uno schermo del computer. Da qui la decisione di lavorare ad una protesi low cost che potesse essere costruita con una stampante 3D normalmente disponibile in commercio.
Una volta realizzato il progetto della protesi e il relativo programma per 'insegnare' alla stampante come produrla l'esperto e' partito per il campo profughi di Yida, in Sud Sudan, per mettere in pratica il progetto con l'aiuto di Tom Catena, un medico statunitense che lavora nell'area e che aveva curato Daniel, che lo scorso novembre ha ricevuto la prima protesi realizzata e ha potuto mangiare da solo per la prima volta dopo due anni.
Il progetto è totalmente open source, ha spiegato Ebeling, ed è disponibile per chiunque voglia lanciare iniziative simili nel resto del mondo. ''Speriamo che anche altri bambini e adulti in altre regioni dell'Africa e di altri continenti - ha affermato - possano sfruttare il potere di questa nuova tecnologia''. Ora Ebeling e' tornato negli Usa, ma nel campo profughi la stampante lavora a pieno regime 'sfornando' circa una protesi alla settimana.
Al progetto di Ebeling ha partecipato un vero e proprio 'dream team' di ricercatori, compreso un neuroscienziato del Mit, una compagnia di stampanti in California e l'inventore sudafricano del progetto Robohand, Richard van As. Anche in questo caso il progetto si basa su una mano low cost personalizzabile, che van As ha progettato innanzitutto per se stesso, avendo perso le dita in un incidente, ma che ora è 'indossata' da oltre 200 persone in tutto il mondo, grazie ai progetti totalmente open source e scaricabili.
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Strumenti come le stampanti 3D possono 'aprire la mente' e trasformare le idee in oggetti concreti, a patto però che non le si usi 'a scatola chiusa', come si fa con gli altri dispositivi tecnologici, spiega Maurizio Sobrero, docente di ingegneria economico-gestionale dell'università di Bologna. ''Uno dei punti di forza del 'project Daniel', al di là dei meriti umanitari, è che poi la stampante è rimasta in Sudan, e che si è insegnato alle persone del luogo ad usarla. In questo momento si sta facendo molta attenzione all''output' delle stampanti, a quello che viene fuori, ma molto meno a cosa c'è dietro, con il rischio di diventare dei consumatori a 'scatola chiusa', come avviene per i tablet. Si usano le app, che nel caso delle stampanti possono essere disegni trovati in rete, ma non si è in grado di programmarle''.
A far esplodere la 'mania' delle stampanti è il fatto che grazie alla scadenza di alcuni brevetti il loro costo è oassato da 15-20mila euro a poche centinaia, unito alla comparsa di software liberi per il disegno tridimensionale. Sobrero è stato uno dei primi in Italia a portarne una in una scuola superiore, il liceo Malpighi di Bologna, diventando così il pioniere di una cosa che invece altrove è già di uso comune. ''Gli alunni coinvolti sono stati entusiasti - racconta l'esperto - hanno progettato e stampato di tutto, dalla cover del cellulare e parti di un'automobilina a molla destinata a una gara internazionale, e ora gli insegnanti stanno studiando il modo di portare questa attività stabilmente all'interno del curriculum. In altri paesi ci sono esperienze molto più solide, in cui ad esempio le stamoanti diventano un vero e proprio strumento di insegnamento, per cui invece di studiare ad esempio un capitello in astratto lo si realizza fisicamente, o attraverso questo strumento si imparano le leggi della fisica''.
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In alcuni casi basta anche molto meno di una stampante in 3D per aiutare chi non ha accesso alle tecnologie più avanzate. E' il caso del microscopio di carta inventato da Manu Prakash, un ingegnere dell'università di Stanford. Il microscopio si costruisce come un origami ed è capace di ingrandire le immagini 2mila volte, quanto basta per diagnosticare diverse malattie dalla malaria all'anemia falciforme alla tubercolosi, e potrebbe aiutare a risolvere molti dei problemi sanitari dei paesi in via di sviluppo. Il dispositivo, che si prepara in 7 minuti seguendo le istruzioni stampate sul foglio stesso, costa 50 cent e pesa 9 grammi, compresa una piccola batteria e una luce Led integrata, ma non ha nulla da invidiare a quelli da decine di migliaia di dollari in uso nei laboratori.
Il team di ricercatori californiani ne ha progettati 12, ognuno dedicato a un diverso agente patogeno o a una malattia, e i test svolti in Asia e Africa hanno mostrato che e' in grado di fornire una diagnosi corretta anche in condizioni ambientali proibitive. Per metterlo a punto ulteriormente Prakash attraverso il sito Foldscope.com sta cercando 10mila volontari, scienziati ma anche studenti e insegnanti, per un test su larga scala. ''Per le sue caratteristiche questo microscopio e' l'ideale in ambienti molto duri - ha scherzato Prakash durante la Ted conference, dove ha presentato il dispositivo - dai paesi in via di sviluppo alle classi di quinta elementare''.
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La definizione di 'lampo di genio' si adatta perfettamente all'iniziativa 'liter of light', partita da un meccanico brasiliano, Alfredo Moser, perfezionata dagli ingegneri del Mit di Boston e ora in rapida diffusione in slum e favelas di tutto il mondo, ovunque ci siano case addossate l'una all'altra e senza corrente elettrica. L'idea è ancora più semplice di quelle descritte prima, e bastano una comune bottiglia di plastica riempita d'acqua, un po' di candeggina e un buco nel tetto. La bottiglia viene inserita nel tetto, e può riflettere la luce del sole al punto da creare all'interno della casa, se correttamente installata, la stessa luce di una lampadina da 60 watt. Grazie alla MyShelter foundation l'idea si sta diffondendo nel mondo, dal Bangladesh alla Tanzania.
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