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La Basaglia si rinnova e guarda avanti
Molti italiani pensano che la Legge Basaglia oltre che chiudere i manicomi (cosa più che giusta visto che erano lager e non luoghi di cura) abbia definito con chiarezza e puntigliosità cosa si doveva fare per garantire sul ‘territorio’ cure appropriate ai malati e sostegno ai loro famigliari e organizzare quei Dipartimenti di salute mentale che ne dovevano costituire l’assetto organizzativo. In realtà la legge 180/Basaglia era una legge ‘quadro’ e si limitava a dire che, chiusi i manicomi, le cure andavano fatte sul territorio. Il come e da parte di chi era evidentemente demandato a successive leggi nazionali e regionali. Peccato che siano dovuti passare 20 anni per avere un provvedimento legislativo che desse vita ai Dipartimenti di salute mentale e ne spiegasse la missione e il funzionamento. Inevitabile che in quel buco di 20 anni sia successo di tutto, nel bene e nel male.
Ogni realtà locale si ‘inventò’ la propria strada e nacquero così realtà di eccellenza e altrettante, se non di più, del tutto incapaci di far fronte alla sofferenza di utenti e familiari. E la cosa dura più o meno invariata tutt’ora. Un esempio è una indagine denuncia realizzata dal dott. Renzo DE Stefani, basagliano, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trento, da sempre impegnato per l’implementazione di nuove metodologie nella cura delle malattie mentali. Dalla ricerca emerge che la risposta di primo intervento in caso di emergenza psichica da parte di 51 Csm italiani coinvolti, è per il 73% dei casi inefficace. Questo è il motivo fondamentale che spinge al varo di una nuova Legge che stabilisca regole del gioco valide in tutta Italia per garantire quell’equità di trattamenti che la Costituzione, sulla carta, garantisce a tutti i cittadini, ‘matti’ compresi.
Quanto della Legge Basaglia non è stato applicato sino ad oggi?
"Innanzitutto le risposte alle situazioni di crisi/urgenza troppo spesso inesistenti/insufficienti, demandate ad altre agenzie (118 o forze dell’ordine), scaricate sulle spalle dei parenti che sono richiesti di fare cose che competono agli operatori e non certo a familiari soli e disperati. Ci sono poi l’accoglienza, l’ascolto attivo. La fiducia e la speranza. Chi vive una situazione di crisi, sia esso l’utente o il familiare, ha un fondamentale bisogno di trovare un clima di grande accoglienza umana, di ascolto pieno, capace di trasmettere fiducia e speranza"
Quali sono le principali conquiste de suo movimento ‘Le Parole ritrovate’?
"La malattia mentale, ci può dividere o ci può unire, ci può fare sentire profondamente soli, ci può dare occasione e motivo di valorizzare la radice profondamente umana, e quindi comune, presente in ogni esistenza, sana o sofferente che sia. Le Parole ritrovate danno voce e protagonismo a chi non li ha mai avuti e a chi li ha persi, servono a coinvolgere e a lasciarci coinvolgere da reti allargate di persone, di intelligenze, di sentimenti".
E all’estero le vostre idee spopolano, ce lo conferma?
"All’estero, dove abbiamo fatto cicli di conferenze molto apprezzate, e in particolare in alcuni paesi il nostro approccio si è diffuso, Svezia e Norvegia, per citare i 2 dove forse ha avuto più successo. Ma senza dimenticare ad esempio la Cina dove abbiamo fatto nascere il primo centro di salute mentale territoriale e dove si sono diffusi rapidamente gli UFE, particolarmente apprezzati nella realtà di Pechino".
Quali prospettive pratiche si aprono se il Disegno di Legge diventerà realtà?
"Di tutte le domande questa può essere quella da 100 milioni. Anche perché la nuova Legge è ancora nella culla e scopriremo nei prossimi mesi quanto sarà cresciuta. Volendo essere, come è nella mia natura, ottimista e dandola per approvata, pur con ritocchi e mediazioni, allora la risposta diventa semplicissima e si collega alla prima domanda dove ho cercato di mettere in luce i principali buchi neri che la salute mentale italiana si porta dietro da troppi anni. Quindi se il Disegno di Legge diventerà realtà io sono fermamente convinto che quei terribili buchi neri un po’ alla volta spariranno e avremo progressivamente in tutta Italia quella salute mentale buona che oggi è limitata ad una parte minoritaria del paese".
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Valorizzare l'esperienza di utenti e familiari - assieme al sapere di medici e operatori - nella cura dei pazienti psichiatrici. ‘fareassieme’ per dirlo in una parola. Rendere i Servizi di salute mentali luoghi più caldi e accoglienti. Offrire a chi soffre di disagio psichico, a partire dalla crisi, un sostegno pronto, adeguato e dignitoso. Sempre. In tutta Italia. Ridurre i ricoveri in quelle strutture residenziali che assomigliano spesso ai vecchi manicomi e, ridurre quindi, i costi che ne conseguono. Parole chiave: fiducia e speranza. La guarigione passa molto spesso attraverso di loro. E nei Servizi di salute mentale italiani se ne sente la mancanza. Sono questi alcuni dei "pilastri" sui quali poggia la proposta di legge 2233, depositata alla fine di marzo del 2014 alla Camera dei Deputati da un gruppo di parlamentari di Partito Democratico e Scelta Civica. L'obiettivo - come recita il "titolo" della proposta di legge è "Valorizzare, in continuità con la legge del 13 maggio 1978, la partecipazione attiva di utenti, familiari, operatori e cittadini nei servizi di salute mentale per promuovere equità di cure nel territorio nazionale".
La legge del 13 maggio 1978 è la famosa 180, la Legge Basaglia. Una conquista storica, rivoluzionaria, che ha portato alla chiusura dei manicomi nel nostro Paese. La fine di un'epoca di dolore ed emarginazione. Il problema, però, è che l'altro aspetto fondamentale della Legge Basaglia, che prevedeva la cura dei pazienti sul territorio, è stato applicato a macchia di leopardo. Senza una strategia unitaria. Con evidenti differenze da città a città, da provincia a provincia, da regione a regione. E' proprio qui che vuole incidere la nuova proposta di legge, facendo in modo che tutti i Servizi di salute mentale forniscano cure dignitose, valorizzando in quest'ottica anche l'esperienza di utenti e familiari. Perché, per aiutare chi soffre di disagio psichico, è decisivo coinvolgere il suo mondo, la sua famiglia, i suoi affetti.
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Un parco di Roma da tempo abbandonato oggi rivive grazie a un’idea dell’Associazione di volontariato Immensa Mente Onlus che l’ha pulito, riqualificato e impiantato un orto dove sono impegnate persone con problemi di salute mentale. Siamo a Villa Berta, sulla Tuscolana.
Per fare questo l’Associazione si è aggiudicata il bando della Regione Lazio “Fraternità”: Promozione di nuove frontiere per l’integrazione sociale” grazie al quale ha avuto in adozione una parte dello spazio parco. Quando sono entrati i volontari hanno dovuto innanzitutto smaltire un notevole quantitativo di siringhe. Il luogo era molto frequentato dai tossicodipendenti. Poi hanno anche provveduto a rivitalizzare il terreno perché dalle analisi risultava “povero” di elementi nutritivi seppur idoneo alla coltivazione.
E’ stato così realizzato un percorso formativo di floricoltura e orticoltura e create le condizioni di aggregazioni sociali che hanno favorito relazioni umane e sociali anche con i cittadini del quartiere.
“Sono stati raggiunti ottimi risultati sia sul piano terapeutico, sul piano sociale, sul piano comunicativo e sul piano territoriale” come si legge nella relazione di chiusura del progetto.
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Il 73% dei Centri di Salute Mentale (CSM) italiani è inefficace di fronte alla richiesta di aiuto di una mamma disperata per un'emergenza che sta sconvolgendo la vita del figlio. E' quanto denuncia una ricerca condotta da Renzo De Stefani, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Provincia di Trento e referente nazionale del movimento "Le Parole ritrovate".ì L'indagine, denominata 'buone pratiche', è stata svolta telefonicamente nel marzo 2016 e ha riguardato 51 CSM italiani. Lo scopo è stato quello di valutare la risposta dell'operatore telefonico del CSM a una segnalazione di crisi di un genitore.
Questa la situazione 'tipo' presentata: "Sono la mamma di Giovanni. Giovanni è il nostro secondogenito, ha 22 anni e frequenta l'università di legge. Non ha mai avuto problemi particolari, salvo un po' di timidezza e una scarsa frequentazioni di amici e amiche. Non crediamo abbia una ragazza perché con noi parla poco. Da 2 giorni si è chiuso in camera sua. Non ci apre. Non ci risponde quando gli parliamo. Non accetta il cibo perché non apre la porta. Forse di notte esce dalla stanza e prende qualcosa in frigorifero. Lo sentiamo ogni tanto parlare a voce alta come se avesse un dialogo con qualcuno che è in stanza con lui. Non riusciamo a capire cosa dica perché la voce si alza e si abbassa e i contenuti sono confusi. Siamo molto preoccupati. Cosa dobbiamo fare? Potete venire a visitarlo?"
Dai dati emerge che solo il 27% conduce un'azione attiva a fronte del 73% passiva. Per azione passiva si intende: madre consigliata a rivolgersi al medico di medicina generale, madre invitata a portare il figlio direttamente al Csm, madre invitata a portare il figlio al pronto soccorso. Per azioni attive si intende: disponibilità ad un colloquio con i genitori al CSM, disponibilità a parlare telefonicamente con il figlio o disponibilità ad effettuare una visita domiciliare. Dall'indagine emerge anche che il tempo dedicato dall'operatore alla madre è per il 53% inferiore ai 5 minuti.
"Come si ricava chiaramente dalle risposte fornite - afferma il dott. De Stefani - la maggior parte dei CSM, che devono essere il punto di riferimento per tutte le richieste che riguardano situazioni di crisi di un territorio, si sottraggono a interventi attivi nascondendosi dietro rifiuti di vario genere, di cui alcuni davvero incredibili per non dire peggio. Alcuni hanno addirittura consigliato alla madre di chiamare il 112 o il 113: questo non fa onore a quello che in tanti vorremmo vedere fare dai servizi di salute mentale italiana".
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Gli UFE (Utenti e Familiari Esperti), sono figure nate all'interno del Servizio di salute mentale di Trento, ma diffuse attualmente in altre zone d'Italia e in alcuni paesi esteri. Gli UFE sono riconosciuti e retribuiti, hanno un ruolo specifico al fianco di medici e operatori. Grazie a un percorso di cura riuscito, con il loro «sapere esperienziale» possono stare vicino a chi soffre. In diversi modi. Accogliendo al front-office del Servizio, attraverso un sostegno durante la crisi, accompagnando la vita in appartamento o sul lavoro, mentre si cerca di riprendere confidenza con la quotidianità. Lo slogan che ispira la proposta è «meno medicine, più umanità». E oltre agli UFE, la legge depositata alla Camera dei Deputati prevede altri punti-chiave: il massimo coinvolgimento possibile degli utenti e dei loro familiari nei percorsi di cura, rendere accoglienti e decorosi i luoghi che ospitano la sofferenza mentale, proporre a utenti e familiari “patti di cura” ricchi di condivisione e di parità con la figura di un Garante a fare da mediatore imparziale, assistere le crisi con prontezza e umanità, stare vicini alle famiglie di chi sta male, fare in modo che i pazienti abbiano sempre un riferimento fisso e chiaro, sforzarsi affinché gli utenti possano riprendere confidenza con la quotidianità attraverso un lavoro vero, soluzioni abitative che puntino sull’autonomia e sulle risorse degli utenti, l’impegno di tutti a cercare nella comunità 1000 opportunità di vera socializzazione. Ricoveri obbligatori, extrema ratio, solo dopo averle provate tutte. Reparti psichiatrici che siano luoghi di vita e dove le persone non vengano legate. Lotta vera allo stigma e ai pregiudizi. E infine tagliare senza pietà costosi e spesso dannosi posti letto in comunità blindate che assomigliano sempre di più ai vecchi manicomi.
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