A svegliarmi è un dolore lancinante all’orecchio destro. Lì ho un timpano un po’ malandato, è vero, ma non sono l’unico, anche i miei vicini stanno a compensare come pazzi. Il pilota non ci va tanto per il sottile e per atterrare opta per una mezza picchiata: meno resti in aria, da quelle parti, meglio è. Fuori dall’oblò, la Siria. E fa effetto, credetemi. Anche se sei mezzo rimbambito dal sonno. Perché è diventato un paese sinonimo di tutto ciò che può andare storto, perché c’è stato un tempo in cui frotte di ragazzi stranieri andavano a studiare l’arabo a Damasco mentre oggi - sicuramente fino a ieri - frotte di giovani europei, nostri concittadini, ci vanno per arruolarsi nello Stato Islamico. Perché la Siria è diventata un incubo da cui scappare. Insomma, perché si muore. Così ci aggiriamo come un gregge di pecore sospinti dai nostri cani pastore russi verso la mensa della base, giusto il tempo per un caffè (tremendo) e per essere divisi in gruppi. A me tocca il numero due: per 72 ore diventerà la mia famiglia, visto che letteralmente passiamo ogni minuto assieme.
“Questa è una base militare, potete fotografare o riprendere solo quando ve lo diciamo noi, intesi?”. Igor Konashenkov è il portavoce del ministero della Difesa e qui fa gli onori di casa. E’ un omone sulla cinquantina asciutto e imperioso come si confa a un generale dell’armata rossa. Ormai ai giornalisti stranieri ci ha fatto il callo e sa perfettamente come farli felici, dice e non dice, sorride sornione alle domande più spinose e poi le aggira con classe ineccepibile. Dunque un professionista. Come tutti alla base. Si potrà essere d’accordo o meno con quello che fanno, ma non c’è dubbio alcuno sul fatto che svolgano il loro compito in modo impeccabile. Cosa che, in un paese in disfacimento con istituzioni statali allo sbando, ha una sua rilevanza. A turno ci mostrano l’area sportiva, dove i militari giocano a pallavolo, tirano pugni al sacco, si allenano a braccio di ferro; c’è una biblioteca, perché mens sana in corpore sano. Un giovane soldato ci racconta che hanno sugli scaffali “circa 2000 titoli”. “La gente viene, legge ogni giorno, abbiamo anche la radio e mettiamo su la musica a colazione pranzo e cena”, racconta. I gruppi che vanno per la maggiore sono “roba classica”, ovvero i Lubè e i Bi-2, rock band russe in voga negli anni ‘90-2000.
Che dire? Hmeimim è una base e svolge il compito di tutte le basi militari del mondo: mette insieme giovani uomini e li tiene occupati nelle pause della guerra. Però, siccome oggigiorno le guerre sono soprattutto di pace, i russi ci tengono molto a mostrarci il centro per la riconciliazione siriana, dove si monitorano le violazioni alla tregua e si tenta di mettere un ordine al caos, facendo sedere le parti a un tavolo. Un ufficiale della base ci spiega che qui si ricevono le segnalazioni sulle violazioni, se necessario si conducono “indagini sul campo”, poi si passa tutto a Ginevra. Il centro - un anonimo hangar, io mi aspettavo qualcosa di molto più imponente - è poi responsabile del “coordinamento con la parte americana”, i cui contatti sono “garantiti 24 ore su 24”. Un turno è inoltre dedicato espressamente al rapporto “con la popolazione locale”, con traduttori d’arabo e inglese sempre presenti, per offrire assistenza “a ogni tipo di problema”. Annotiamo diligentemente sul taccuino.
Non appena usciamo dal centro vengo avvicinato da una troupe di un canale televisivo russo che mi vuole intervistare, chiedermi cosa ne penso. Io svicolo - 'giornalisti che intervistano giornalisti' ha sempre un qualcosa d’incestuoso - sia perché, onestamente, non mi va di essere dato in pasto alla propaganda russa, perché di questo si tratta, sia perché non so che dire, mi trovo alla base da poche ore, fa un caldo boia, non so minimamente cosa mi attenderà di lì a poche ore e, beh, sto cercando di lavorare. Dettaglio non trascurabile. Come evolverà la giornata? Che ore sono rispetto al fuso di Roma? E’ già iniziata la riunione di redazione? Vorranno un pezzo già oggi? Cosa è nuovo è cosa non lo è? Ma soprattutto: c’è il wi-fi da qualche parte? Sembra una roba banale ma anche se sei il reporter più fico del mondo, senza un punto di trasmissione, la tua ficaggine te la tieni per te. E infatti orde di reporter si aggirano tutti con le stesse domande: “ma tu prendi?” “hai il 3G?”. Quindi farfuglio qualcosa davanti alle telecamere, dico che una base militare è una base militare, non ho nulla di interessante da commentare, e batto in ritirata. E mi secca anche solo così, perché per un senso innato di cortesia non ce l’ho fatta a rispondere chiaro e tondo “no-comment”.
Le preoccupazioni, ad ogni modo, possono attendere. Dopo un bel pippone di prove di parata militare per le celebrazioni della vittoria dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale, che come ogni 9 maggio risveglia l’orgoglio patriottico della Russia, passiamo in rassegna i jet in forze alla base. Le sortite, da quando Vladimir Putin ha decretato il “missione compiuta”, lo scorso marzo, sono passate da circa 100 al giorno a 12-15. Abbastanza per assistere a un bel po’ di decolli, col frastuono dei propulsori che ti spacca le orecchie e le vertiginose ascensioni dei Su-30, i caccia ad alta manovrabilità per il combattimento aria-aria. E’ un aereo bellissimo e a un ex ragazzo degli anni Ottanta, che si è visto Top-Gun almeno una dozzina di volte, dà un certo brivido; al fianco sfilano i bombardieri Su-24 e i multiruolo Su-34, dalla caratteristica forma a becco di papera, neri come cigni mortiferi. Ecco, questi quando rullano sulla pista, e partono con il loro carico di bombe, mi provocano invece un senso di inquietudine. Volano, ci dicono, alla volta di Ragga, Der-a-Zor, Arak. Ovvero le ultime roccaforti dell’Isis in Siria. Sarà. I russi sostengono che hanno sempre centrato gli obiettivi, che Mosca non ha causato “vittime tra i civili” ma intanto Aleppo brucia, gli ospedali vengono colpiti come birilli e i missili sono sempre missili. Se quello che alcuni osservatori sostengono è vero, e cioè che alcuni raid russi sono responsabili di quelle distruzioni, di quello scempio, è proprio da quegli aerei lì che provengono le bombe. E li vedo volare via davanti al mio naso come libellule gravide, con gli operatori tv che sgomitano per accaparrarsi i posti migliori a bordo pista e portarsi a casa un’inquadratura pulita.
Ha senso tutto ciò?
Voglio dire, cosa aggiunge alla nostra comprensione del conflitto questa marea di dettagli tecnici, close-up, trasparenza non richiesta che sa tanto di pr 3.0. Nulla. O forse molto, specie per noi giornalisti, che scriviamo ogni giorno di conflitti e morti seduti a una scrivania ed è una storia come un’altra. Non so. Forse è un classico caso di quel che io chiamo paradosso del leone. Tutti sappiamo com’è fatto un leone, lo abbiamo visto mille volte nei film e nei cartoni animati da bambini. Poi un bel giorno te lo trovi davanti e porca zozza, 200 chili di gatto sono tanta roba. E quell’immagine asettica che avevamo nel cervello cambia, non è più il Re Leone ma il re della foresta e c’è un cavolo di motivo se si chiama così. Ecco, se tutti noi potessimo vederli tutti, i dettagli di questo nostro mondo, almeno una volta dal vivo, forse lo rispetteremmo di più. Ma ripeto, non so. Mi aggrappo al generico valore della testimonianza, che come la vogliate vedere è una delle bussole morali del nostro mestiere e vado avanti, mi trascino sullo spiazzo della base dove Konashenkov, maestoso come un dio greco sotto al disco solare, ha deciso di tenere il suo briefing con la stampa.
Vado veloce perché tanto il contenuto della sua conferenza stampa lo conoscete già, basta che abbiate letto un giornale, visto un tg, aperto internet, frequentato twitter. Il generale ci dice che la notizia del bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere di Aleppo lo scorso 27 aprile “è falsa” è mostra due foto, una del 29 aprile di quest'anno e l'altra del 15 ottobre 2015. In entrambe le immagini l’ospedale risulta avere gli stessi danni. Sono scettico, lo confesso. Tra un medico e un soldato in genere tendo a fidarmi più del medico. Ma Konashenkov va avanti come un panzer, secondo lui fa tutto parte della campagna mediatica “per screditare la Russia”. Poi è il momento dei numeri: compiute tot sortire negli ultimi tot giorni, ritirati tot aerei militari, raggiunta intesa completa con gli Usa sullo scambio d’informazione sui voli nei cieli siriani.
A conferenza stampa ultimata un manipolo di irriducibili reporter si fa sotto a Konashenkov per un ulteriore round di Q&A. Ma io inizio a cedere, lo confesso. A quel punto supero abbondantemente le 30 ore in piedi di fila, con poche ore di sonno malato nel carniere, non ho mangiato quasi nulla e non ho voglia di giocare al solito teatrino stampa-potere in cui noi facciamo le domande, loro rispondono come vogliono e amici come prima. E poi non ha detto nulla di clamoroso, niente che possa scuotere il vecchio drago sputafuoco del sistema mediatico. Le sue parole vi arriveranno, ma niente titoloni sui giornali. Quindi mi metto a parlare con dei colleghi, discutiamo delle foto di cui sopra che ci hanno distribuito. Ma la ‘ricreazione’ non dura niente. Ci caricano sui bus. Appello (di nuovo?). E via. Dove? Non si sa.