di Mattia Bernardo Bagnoli
ANSA MagazineaMag #75
La Russia ha portato oltre 100 giornalisti stranieri in Siria

In Siria: embedded. Il reportage dell'inviato Ansa

La Russia ha portato oltre 100 giornalisti stranieri in Siria. L'ANSA era l'unica testata italiana presente. Questo è il resoconto dettagliato di un viaggio faticoso in cui il reportage di guerra si è trasformato a tratti in una gita 'fuori porta' della domenica (con la protezione dell'armata rossa). E che solleva diversi interrogativi sulle difficoltà del giornalismo 'embedded'.

Fuori è buio pesto. E nel mio autobus pure. Il nostro angelo custode, Alexander, un soldato russo dall’aria pacioccona che sa però farsi rispettare con grande naturalezza, ci ha pregato di non accendere le luci di cortesia per “ragioni di sicurezza”. Non ce lo facciamo ripetere due volte e rispettiamo la comanda: ci troviamo in un punto imprecisato tra Palmira e Homs, i blindati a turno superano gli autobus e si piazzano davanti agli sparuti crocicchi per bloccare eventuali attacchi con le auto-bomba e nessuno fiata. Troppo stanchi. Siamo in viaggio già da due giorni, il ministero della Difesa russo ha cavato fuori dal cilindro un programma dai ritmi serratissimi e abbiamo dormito tutti poche ore al giorno, dove si può quando si può. Io però non ho sonno. Dovrei ma non ce l’ho. Guardo fuori dal finestrino il deserto siriano scivolare via indifferente al nostro lungo convoglio mentre la musica araba della radio accompagna l’ondeggiare del bus, tra buche e frenate improvvise.

E non posso fare a meno di pensare se mai ci tornerò in Siria, se mai questa terra splendida troverà pace, sarà capace di vivere in modo normale, non dico bene, che già sarebbe chiedere troppo per questo nostro martoriato Medio Oriente, cortile dell’Europa, ma anche solo senza ammazzamenti, bombe, atrocità d’arte varia. Poi mi distraggo, torno a montare i video della giornata con lo smartphone - saddio come e quando riuscirò a trasmettere - e mi prendo qualche appunto sul taccuino, sperando che almeno una parte degli ottimi pensieri della notte trovino casa da qualche parte e che non se ne vadano (come sempre) con la luce del mattino. Ma la distrazione del lavoro non dura a lungo. E torno a guardare la notte. Se anche solo un mese fa m’’avessero detto che presto avrei visto suonare la sinfonia numero 1 di Serghei Prokofiev nell’anfiteatro romano di Palmira dall’orchestra filarmonica di San Pietroburgo avrei sorriso di circostanza. Ma la Russia è un paese assurdo, dove tutto è possibile - compreso organizzare questa gita turistica per oltre 100 giornalisti di mezzo mondo in un paese sconvolto da cinque anni di guerra civile. In termine tecnico si chiama giornalismo embedded. Però su scala ciclopica. Tanto che un tarlo continua a ravanarmi la zucca: ma come hanno fatto i russi a trasformare il reportage di guerra in una gita di classe?

Cartellone con Putin e Assad alla base russa di Latakia


La partenza: ovvero acqua in bocca

“Vuole venire con noi in Siria? Decolliamo martedì”. L’invito da parte del ministero della Difesa arriva un sabato sera e non prevede domande, solo due risposte: sì o no. Non si sa a che ora si parte - “le verrà comunicato in seguito” - non si sa dove si va di preciso né quando si torna né chi fa parte del tour. Ah, e c’è il divieto assoluto di parlare dell’invito stesso, se non con la propria testata e i parenti stretti - sempre per ragioni di sicurezza. Qualche dettaglio però trapela lo stesso. Il mio infatti era il settimo giro organizzato dai russi da quando hanno dato il via all’operazione in Siria e fra colleghi, ovviamente, si parla. Quindi una vaga idea di cosa mi attende in testa ce l’ho: saremo un ventina, ci faranno vedere la base aerea di Hmeimim, da dove decollano gli aerei russi per compiere i raid, ci porteranno in qualche villaggio liberato, forse anche a Palmira. Dopo una rapida consultazione con Roma decidiamo che sì, l’ANSA c’è. Insomma, i ‘fondamentali’ della missione più o meno ce li ho chiari. Sono le proporzioni che mi colgono del tutto di sorpresa.

Quando arrivo all’appuntamento fatidico davanti al gigantesco ministero della Difesa di Mosca, alle 19:30 di martedì 3 maggio, ci trovo tre autobus. Dopo una mezz’oretta di confusione iniziale saliamo tutti a bordo e scatta l’appello, come a scuola: nome e testata. Ci sta. Tutti presenti. Si parte alla volta dell’aeroporto militare di Mosca. Una volta arrivati, ci si concentra tutti nella sala d’attesa. Nel mentre si sono fatte le 10. Mangiamo - “portatevi cibo e acqua, il viaggio è lungo” c’è scritto d’altra parte nella mail di istruzioni per l’uso - e chiacchieriamo. Scattano le prime presentazioni, le prime intese, i racconti di chi già ha fatto parte del Siria-express russo. Quindi le operazioni doganali e il controllo dei bagagli e dei documenti. E io che pensavo che almeno in questo caso ci sarebbe stata risparmiata la micidiale meticolosità delle formalità aeroportuali russe. Manco per niente: se possibile sono ancora più scrupolosi. Così prima di ritrovarci tutti a bordo dell’anzianotto - e angusto - Ilyushin II-62 scoccano le 2 di notte. Altro appello. E finalmente decolliamo. Lo spazio per le gambe è inesistente, la Ryanair in confronto è lusso sfrenato. Le informazioni scarseggiano, si sa solo che arriviamo al mattino presto, si vola sull’Iran per evitare la Turchia, poi ci diranno di più. “Dormite”, è il consiglio.
Grazie.
Una parola.


Un Su-24 nella base di Hmeimim


Guerra e pace

A svegliarmi è un dolore lancinante all’orecchio destro. Lì ho un timpano un po’ malandato, è vero, ma non sono l’unico, anche i miei vicini stanno a compensare come pazzi. Il pilota non ci va tanto per il sottile e per atterrare opta per una mezza picchiata: meno resti in aria, da quelle parti, meglio è. Fuori dall’oblò, la Siria. E fa effetto, credetemi. Anche se sei mezzo rimbambito dal sonno. Perché è diventato un paese sinonimo di tutto ciò che può andare storto, perché c’è stato un tempo in cui frotte di ragazzi stranieri andavano a studiare l’arabo a Damasco mentre oggi - sicuramente fino a ieri - frotte di giovani europei, nostri concittadini, ci vanno per arruolarsi nello Stato Islamico. Perché la Siria è diventata un incubo da cui scappare. Insomma, perché si muore. Così ci aggiriamo come un gregge di pecore sospinti dai nostri cani pastore russi verso la mensa della base, giusto il tempo per un caffè (tremendo) e per essere divisi in gruppi. A me tocca il numero due: per 72 ore diventerà la mia famiglia, visto che letteralmente passiamo ogni minuto assieme.

“Questa è una base militare, potete fotografare o riprendere solo quando ve lo diciamo noi, intesi?”. Igor Konashenkov è il portavoce del ministero della Difesa e qui fa gli onori di casa. E’ un omone sulla cinquantina asciutto e imperioso come si confa a un generale dell’armata rossa. Ormai ai giornalisti stranieri ci ha fatto il callo e sa perfettamente come farli felici, dice e non dice, sorride sornione alle domande più spinose e poi le aggira con classe ineccepibile. Dunque un professionista. Come tutti alla base. Si potrà essere d’accordo o meno con quello che fanno, ma non c’è dubbio alcuno sul fatto che svolgano il loro compito in modo impeccabile. Cosa che, in un paese in disfacimento con istituzioni statali allo sbando, ha una sua rilevanza. A turno ci mostrano l’area sportiva, dove i militari giocano a pallavolo, tirano pugni al sacco, si allenano a braccio di ferro; c’è una biblioteca, perché mens sana in corpore sano. Un giovane soldato ci racconta che hanno sugli scaffali “circa 2000 titoli”. “La gente viene, legge ogni giorno, abbiamo anche la radio e mettiamo su la musica a colazione pranzo e cena”, racconta. I gruppi che vanno per la maggiore sono “roba classica”, ovvero i Lubè e i Bi-2, rock band russe in voga negli anni ‘90-2000.

Che dire? Hmeimim è una base e svolge il compito di tutte le basi militari del mondo: mette insieme giovani uomini e li tiene occupati nelle pause della guerra. Però, siccome oggigiorno le guerre sono soprattutto di pace, i russi ci tengono molto a mostrarci il centro per la riconciliazione siriana, dove si monitorano le violazioni alla tregua e si tenta di mettere un ordine al caos, facendo sedere le parti a un tavolo. Un ufficiale della base ci spiega che qui si ricevono le segnalazioni sulle violazioni, se necessario si conducono “indagini sul campo”, poi si passa tutto a Ginevra. Il centro - un anonimo hangar, io mi aspettavo qualcosa di molto più imponente - è poi responsabile del “coordinamento con la parte americana”, i cui contatti sono “garantiti 24 ore su 24”. Un turno è inoltre dedicato espressamente al rapporto “con la popolazione locale”, con traduttori d’arabo e inglese sempre presenti, per offrire assistenza “a ogni tipo di problema”. Annotiamo diligentemente sul taccuino.

Non appena usciamo dal centro vengo avvicinato da una troupe di un canale televisivo russo che mi vuole intervistare, chiedermi cosa ne penso. Io svicolo - 'giornalisti che intervistano giornalisti' ha sempre un qualcosa d’incestuoso - sia perché, onestamente, non mi va di essere dato in pasto alla propaganda russa, perché di questo si tratta, sia perché non so che dire, mi trovo alla base da poche ore, fa un caldo boia, non so minimamente cosa mi attenderà di lì a poche ore e, beh, sto cercando di lavorare. Dettaglio non trascurabile. Come evolverà la giornata? Che ore sono rispetto al fuso di Roma? E’ già iniziata la riunione di redazione? Vorranno un pezzo già oggi? Cosa è nuovo è cosa non lo è? Ma soprattutto: c’è il wi-fi da qualche parte? Sembra una roba banale ma anche se sei il reporter più fico del mondo, senza un punto di trasmissione, la tua ficaggine te la tieni per te. E infatti orde di reporter si aggirano tutti con le stesse domande: “ma tu prendi?” “hai il 3G?”. Quindi farfuglio qualcosa davanti alle telecamere, dico che una base militare è una base militare, non ho nulla di interessante da commentare, e batto in ritirata. E mi secca anche solo così, perché per un senso innato di cortesia non ce l’ho fatta a rispondere chiaro e tondo “no-comment”.

Le preoccupazioni, ad ogni modo, possono attendere. Dopo un bel pippone di prove di parata militare per le celebrazioni della vittoria dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale, che come ogni 9 maggio risveglia l’orgoglio patriottico della Russia, passiamo in rassegna i jet in forze alla base. Le sortite, da quando Vladimir Putin ha decretato il “missione compiuta”, lo scorso marzo, sono passate da circa 100 al giorno a 12-15. Abbastanza per assistere a un bel po’ di decolli, col frastuono dei propulsori che ti spacca le orecchie e le vertiginose ascensioni dei Su-30, i caccia ad alta manovrabilità per il combattimento aria-aria. E’ un aereo bellissimo e a un ex ragazzo degli anni Ottanta, che si è visto Top-Gun almeno una dozzina di volte, dà un certo brivido; al fianco sfilano i bombardieri Su-24 e i multiruolo Su-34, dalla caratteristica forma a becco di papera, neri come cigni mortiferi. Ecco, questi quando rullano sulla pista, e partono con il loro carico di bombe, mi provocano invece un senso di inquietudine. Volano, ci dicono, alla volta di Ragga, Der-a-Zor, Arak. Ovvero le ultime roccaforti dell’Isis in Siria. Sarà. I russi sostengono che hanno sempre centrato gli obiettivi, che Mosca non ha causato “vittime tra i civili” ma intanto Aleppo brucia, gli ospedali vengono colpiti come birilli e i missili sono sempre missili. Se quello che alcuni osservatori sostengono è vero, e cioè che alcuni raid russi sono responsabili di quelle distruzioni, di quello scempio, è proprio da quegli aerei lì che provengono le bombe. E li vedo volare via davanti al mio naso come libellule gravide, con gli operatori tv che sgomitano per accaparrarsi i posti migliori a bordo pista e portarsi a casa un’inquadratura pulita.

Ha senso tutto ciò?

Voglio dire, cosa aggiunge alla nostra comprensione del conflitto questa marea di dettagli tecnici, close-up, trasparenza non richiesta che sa tanto di pr 3.0. Nulla. O forse molto, specie per noi giornalisti, che scriviamo ogni giorno di conflitti e morti seduti a una scrivania ed è una storia come un’altra. Non so. Forse è un classico caso di quel che io chiamo paradosso del leone. Tutti sappiamo com’è fatto un leone, lo abbiamo visto mille volte nei film e nei cartoni animati da bambini. Poi un bel giorno te lo trovi davanti e porca zozza, 200 chili di gatto sono tanta roba. E quell’immagine asettica che avevamo nel cervello cambia, non è più il Re Leone ma il re della foresta e c’è un cavolo di motivo se si chiama così. Ecco, se tutti noi potessimo vederli tutti, i dettagli di questo nostro mondo, almeno una volta dal vivo, forse lo rispetteremmo di più. Ma ripeto, non so. Mi aggrappo al generico valore della testimonianza, che come la vogliate vedere è una delle bussole morali del nostro mestiere e vado avanti, mi trascino sullo spiazzo della base dove Konashenkov, maestoso come un dio greco sotto al disco solare, ha deciso di tenere il suo briefing con la stampa.

Vado veloce perché tanto il contenuto della sua conferenza stampa lo conoscete già, basta che abbiate letto un giornale, visto un tg, aperto internet, frequentato twitter. Il generale ci dice che la notizia del bombardamento dell’ospedale di Medici Senza Frontiere di Aleppo lo scorso 27 aprile “è falsa” è mostra due foto, una del 29 aprile di quest'anno e l'altra del 15 ottobre 2015. In entrambe le immagini l’ospedale risulta avere gli stessi danni. Sono scettico, lo confesso. Tra un medico e un soldato in genere tendo a fidarmi più del medico. Ma Konashenkov va avanti come un panzer, secondo lui fa tutto parte della campagna mediatica “per screditare la Russia”. Poi è il momento dei numeri: compiute tot sortire negli ultimi tot giorni, ritirati tot aerei militari, raggiunta intesa completa con gli Usa sullo scambio d’informazione sui voli nei cieli siriani.

A conferenza stampa ultimata un manipolo di irriducibili reporter si fa sotto a Konashenkov per un ulteriore round di Q&A. Ma io inizio a cedere, lo confesso. A quel punto supero abbondantemente le 30 ore in piedi di fila, con poche ore di sonno malato nel carniere, non ho mangiato quasi nulla e non ho voglia di giocare al solito teatrino stampa-potere in cui noi facciamo le domande, loro rispondono come vogliono e amici come prima. E poi non ha detto nulla di clamoroso, niente che possa scuotere il vecchio drago sputafuoco del sistema mediatico. Le sue parole vi arriveranno, ma niente titoloni sui giornali. Quindi mi metto a parlare con dei colleghi, discutiamo delle foto di cui sopra che ci hanno distribuito. Ma la ‘ricreazione’ non dura niente. Ci caricano sui bus. Appello (di nuovo?). E via. Dove? Non si sa.


I segni della guerra


La Russia è con voi!

Finalmente usciamo dalla base. Finalmente (scusate ma quando ci vuole ci vuole) la Siria. Ci muoviamo da un posto all’altro come giocassimo a twister, con macchine fotografiche, smartphone, telecamere in mano. I pulman filano in convoglio, due autoblindo fanno da battistrada, poi si alternano (un bus un blindato, con alla mitragliatrice in torretta un soldato russo in pieno assetto da battaglia) e due chiudono. I più cauti indossano subito i giubbini anti-proiettile. Il sonno passa in un baleno e la costa sfila sulla nostra destra. Allora andiamo a sud. Poi puntiamo all’interno. Ovunque ci sono poster di Bashar al-Assad, il presidente siriano accusato di aver trucidato il suo popolo pur di restare al potere e non essere travolto dalla primavera araba. Sono già passati cinque anni. I danni della guerra, in questa parte del paese, sono minori, non è qui che sono avvenuti gli scontri peggiori, ma ad ogni modo il paesaggio è segnato. Dall’incuria e dall’immondizia, soprattutto. Capirai, se sei in piena guerra civile la pulizia delle strada è l’ultimo dei tuoi problemi.
Ma non è un bel vivere.

La Siria scorre - e quando ti ricapita di vederla oggi come oggi? - ma la stanchezza, complice il rollio dell’autobus, ha il sopravvento. Dormiamo tutti. A turno. Casualmente. Si consolidano le amicizie. Il mio compagno di posto è un giornalista brasiliano, corrispondente da Mosca per l’emittente O Globo. Quando mi sveglio, se vedo qualcosa di interessante, gli dò un colpo col braccio. Lui fa lo stesso. Lui s’è portato dietro più acqua di me, molto gentilmente la condivide. Sopratutto ha dei wafer. E mi salva da un calo di zuccheri fulminante. Si va avanti così. Per ore. Attraversiamo valli verdi rigogliose e filari di ulivi meravigliosi - ma tempestati di sacchetti di plastica. Sono ovunque. Appena si alza il vento mulinellano nel cielo. Uno spettacolo tremendo, da stringerti il cuore. Poi arriva il podere di qualcuno che non è scappato (ancora?) e lo vedi curato come un figlio, terra nera che dà buoni frutti, le canne di bambù in fila, ogni cosa pulita al suo posto. Atolli in mezzo a un oceano in tempesta. Ma perché l’uomo è così bestia, e le bestie mi perdonino.

Il convoglio a un certo punto rallenta e s’inerpica per un tratturo. Davanti a noi compare un villaggio, o meglio, un’accozzaglia di costruzioni di cemento diroccate. All’ingresso del paesino - ci dicono che siamo a Kawkab, per Wikipedia poco più di mille anime prima dello scoppio della guerra - ci attendono centinaia di persone e decine di militari siriani. E non uso un verbo a caso: proprio ci aspettano. Quando gli autobus percorrono la via centrale del villaggio uomini donne e bambini salutano e sventolano i cartelli con su la foto del faccione di Assad. Sono confuso. Chi sono queste persone? Perché siamo stati portati qui? Le informazioni scarseggiano. Tutti a quel punto indossano i giubbini anti-proiettile e scendiamo dai bus. I blindati si dispongono sul perimetro del villaggio per presidiare le vie d’accesso e compaiono i pick-up con le mitragliatrici montate sul pianale. Al centro del paese ci sono dei camion militari russi carichi di aiuti umanitari - sui sacchi di farina c’è la scritta “la Russia è con voi!” - e non appena i nostri cane pastore danno il via libera ci viene permesso di avvicinarci alla popolazione locale. Iniziano canti, balli e musica. Contemporaneamente, in un grande tendone, un ufficiale russo annuncia la firma di un trattato tra gli anziani del villaggio e il governo siriano.

“In questo paese - ci viene detto - per molto tempo è passata la linea del fronte, qui combattevano militanti e truppe governative. Ma i militanti sono stati respinti ed è iniziato il processo di pace. Un lavoro lungo e faticoso. Oggi qui si firma il trattato per il ritorno dei civili. La gente vuole vivere in pace. L’amministrazione e il governo lo desiderano. Ora le gente è tornata nella loro città ed è pronta a lavorare per la ricostruzione”. Segue la firma del documento e poco dopo la deposizione delle armi da parte dei ribelli. Ribelli buoni, ovviamente, non i cattivoni dell’Isis o di al-Nusra, che non sono coperti dalla tregua e quindi restano obiettivi legittimi sia per le forze russe che per quelle siriane. Le televisioni filmano, i fotografi fotografano. Gli interrogativi però restano. Quando è stato ‘liberato’ il villaggio? Secondo i russi “recentemente”. Termine vago. Dopo qualche insistenza di un gruppetto di noi della carta stampata saltano fuori i primi numeri: due mesi, forse tre. Non la settimana scorsa, dunque. Perché portarci qui ora? Per assistere alla firma del trattato, ovviamente. Pare che i negoziati siano durati un mese. Parlando coi soldati siriani e con alcuni abitanti del posto emergono però dati differenti. Il villaggio - mi dice un militare che parla qualche parola d’inglese - è stato liberato 5 mesi fa. Ora è sicuro ma le postazioni di al-Nusra si trovano a 7-10 chilometri di distanza. Si forma un capannello. Altri colleghi si avvicinano, ognuno col suo metodo personale per attaccare bottone - c’è chi distribuisce sigarette, chi parla di calcio. Come sempre in questi casi, quando viene fuori che sono italiano, si allargano grandi sorrisi e immancabilmente spuntano i mostri sacri dell’italianità del mondo. La pappa, ad esempio. Mahmoud mi racconta che il suo piatto preferito sono gli spaghetti al pomodoro con su tanto parmigiano. E sai che c’è Mahmoud? Pure il mio. Poi si snocciola il rosario dei nomi degli italiani che hanno fatto grande nel mondo il nostro paese: Pirlo, Baggio (maddai, ancora?), Buffon. Un altro soldato, più giovane, interviene e con aria molto professionale spiega a tutti che no, Francesco Totti è il vero campione. Parlano in arabo ma il significato è chiaro. Vai, pensiamo, il ghiaccio s’è rotto. Ma sul più bello passa un graduato e con un’urlataccia richiama i soldati all’ordine. Addio raccolta d’informazioni.

E’ impossibile dire con certezza come siano andate le cose a Kawkab. Di certo c’è che nel paese, a garantire la sicurezza, c’erano la Guardia Nazionale e le forze speciali siriane. I soldati dell’esercito, ci dicono, sono stati dislocati intorno al villaggio. Ma il loro numero è in netta minoranza. E non è un dettaglio secondario. Come mi spiega un amico esperto di cose arabe, Enrico De Angelis, che ha vissuto a Damasco e ora è basato al Cairo, dove fa l’analista, “una generazione di alawiti è stata spazzata via dal conflitto”. L’esercito siriano ha i numeri all’osso. Secondo i suoi contatti militari, a Palmira a combattere ci sono andati battaglioni di miliziani iracheni sciiti e di Hezbollah. Non i siriani. Semplicemente perché non ne hanno le forze. “Quand’anche si raggiunga un accordo di pace - mi dice - come pensa il governo siriano di mantenere il controllo del territorio?”. Bella domanda. A Kawkab la risposta sembra essere lo sfinimento per cinque anni di guerra civile. Ma ripeto, è solo una sensazione. Dopo averci fatto vedere quello che volevano farci vedere, i russi ci caricano di nuovo sui bus e si fa rotta verso l’albergo di Latakia: il tramonto si avvicina e ci aspettano almeno altre tre ore di strada.


Dalla Russia a Kawkab: una testimonianza


Uno scorcio di Palmira


Nessun dorma

La bandiera siriana e sullo sfondo Palmira

La sveglia è fissata alle sei del mattino. “Partiamo alle 7 e chi non c’è pazienza”, mette in chiaro il nostro soldato-chaperon. Meglio essere puntali. Nessuno manca all’eterno appello e si va. Destinazione? Finalmente ce lo dicono: Palmira. La ‘perla del deserto’ liberata dall’Isis circa un mese prima dopo feroci combattimenti - un soldato delle Spetsnaz, le forze speciali russe, è stato catturato nel corso dell’operazione e sapendo quale fine gli avrebbero fatto fare i tagliagole dello Stato Islamico ha urlato via radio ai compagni “bombardatemi!” e i Su-34 sono entrati immediatamente in azione.

Ecco, questo fa capire l’impegno, anche emotivo, che la Russia ha messo nella campagna per liberare Palmira. Noi non siamo i primi giornalisti occidentali ad arrivare là - tra gli italiani ricordo Marc Innaro della Rai, anche lui embedded coi russi, e Giordano Stabile della Stampa - ma comunque si tratta di un luogo difficilmente raggiungibile: quasi 200 chilometri di strada (dalla costa) costellata di posti di blocco. E lo sottolineao più che altro perché portarci cinque bus zeppi di giornalisti internazionali - comprese non poche star, come ad esempio John Simpson della BBC - significa o fidarsi molto dell’opera di ‘pulizia’ compiuta dalla conquista di Palmira ad oggi o prendere un bel rischio. Far saltare in aria uno di quei pulman sarebbe infatti praticamente il sogno erotico di ogni jihadista che si rispetti. E infatti i dispositivi di sicurezza sono ingenti. Oltre alla solita scorta di blindati - a corazza pesante, praticamente dei tank - veniamo seguiti da elicotteri d’assalto (a un certo punto saranno quattro) per tutte e cinque le ore di viaggio.

Che dire? L’effetto è surreale. Tra la gita di classe, per l’appunto, paragone ormai più che calzante in virtù delle inevitabili dinamiche umane scatenate da tutte quelle ore di vicinanza forzata, e la visita guidata modello tour-operator. D’altra parte Palmira è o non è (o meglio: era) una meta turistica? E dunque non posso fare a meno di pensare che ci sto andando come ci andrebbe mio nonno - 93 anni suonati e arzillissimo. Ovvero in bus, partendo da un albergone sulla costa, con guida a bordo e pranzo al sacco. Escluso ovviamente un pezzo di armata rossa come dama di compagnia. Detto questo, quale modo migliore per vedere un tratto di mondo che altrimenti sarebbe quasi inaccessibile? Ad arrivarci in elicottero o cargo militare sarebbe certamente più suggestivo ma che ne sapresti di quel che c’è in mezzo, dal punto A al punto B? Niente. Invece noi notiamo gli insediamenti sulla costa farsi sempre più rarefatti mano a mano che procediamo verso il deserto, una recrudescenza dei segni della lotta nei villaggi che circondano Homs, ‘capitale’ della provincia dove sorge anche Palmira e che noi sfioriamo solamente nel corso della traversata, e infine una presenza sempre più forte dell’esercito - e delle batterie anti-missilistiche russe - nell’area che separa Homs dalla perla del deserto.

A Palmira ci arriviamo col sole allo zenit, intorno alle 13:00. Qui i segni del conflitto sono evidenti: tralicci elettrici abbattuti, abitazioni sventrate dai colpi di artiglieria, bossoli d’obice sparpagliati dappertutto. La città nuova, che si estende da un lato del parco archeologico, è semi distrutta. La base russa - che mi ricorda l’accampamento di una legione romana, coi terrapieni ai confini e una sorta di decumano al centro - è ultra-equipaggiata. Non appena ci accomodiamo nel tendone che funge da refettorio, e ci mettiamo in fila per far uso delle latrine, udiamo de botti assordanti alle nostre spalle. “Stanno sminando”, mi dice una delle nostre accompagnatrici. Ma non è vero. Sono i russi che tirano alle postazioni dell’Isis, accampato a 15 chilometri da Palmira. La notte precedente, riportano diverse fonti, lo Stato Islamico ha tentato una sortita all’aeroporto ma è stato respinto. E’ una bella coincidenza, non posso fare a meno di pensare che forse ha ricevuto una soffiata di quello che sta per accadere qui. Noi lo sappiamo certamente per ultimi: nel vecchio anfiteatro romano del parco archeologico assisteremo a un concerto. Sulle prime la notizia non mi emoziona un gran che. Penso ci sarà una banda militare e qualche strimpellata ad uso delle telecamere, giusto per massimizzare l’impatto scenico del teatro.

Ma mi sbaglio di grosso.

A Palmira Vladimir Putin sfoggia infatti un vero e proprio numero da prestigiatore. Nell’anfiteatro, laddove l’Isis sgozzava uomini e dove ha trovato la morte il custode delle rovine, Haled Assad, troviamo ad attenderci la celebre orchestra del teatro Mariinsky di San Pietroburgo diretta da Valery Gergiev; ad esibirsi in assolo, il violoncellista amico di Putin Serghei Roldugin. Esatto, proprio quello finito al centro dello scandalo Panama Papers, accusato di essere il terminale di una montagna di denaro, probabilmente destinato al cerchio magico di Putin se non unicamente al presidente stesso. Siamo attoniti. L’adrenalina scorre a secchiate. Gira voce che Putin in persona comparirà sul palco; sugli spalti è presente il ministro della cultura russo Vladimir Medinsky; ci sono i rappresentanti permanenti all’UNESCO di diversi paesi tra cui Francia, Serbia, Perù; funzionari della Mezza Luna Rossa siriana; dignitari di mezzo paese e una rappresentanza della popolazione locale oltre che le truppe russe e siriane. Quindi, all’improvviso, appare Putin - in videoconferenza dal Cremlino. 

Lo ‘zar’ ringrazia chi ha combattuto e combatte contro il terrorismo, “piaga globale” che si potrà battere solo se si combatterà “tutti insieme”, perché non ci sono terroristi di serie A e serie B. E’ un motivo ricorrente nella narrazione del Cremlino, una critica serrata a quella politica dei “doppi standard” adottata dall’Occidente che ha portato la Siria - è la posizione dei russi - nello stato in cui è oggi. Poi inizia il concerto: partita No 2 di Bach, Shchedrin, prima sinfonia di Prokofiev. E devo essere onesto: pelle d’oca. Il violino prima e il violoncello dopo si stagliano nitidi nel silenzio - che acustica! - mentre il vento soffia dolce sul deserto, creando echi tra le colonne, e gli elicotteri russi pattugliano lontani il perimetro della città con il loro caratteristico rumore sordo e cadenzato vu vu vu. I grandi network occidentali, forti dei loro potenti ricevitori satellitari, vanno in diretta, rimarcano la loro presenza dove si fa la storia. Perché insomma, bisogna dare a Putin quel che è di Putin: è tutta pr, ma a un mese dalla presa di Palmira, dove regnava il fanatismo e l’ottusità, ora va in scena l’arte e la bellezza. Un messaggio potente e inequivocabile trasmesso in diretta in Russia e amplificato in tutto il globo dalla presenza di così tanti giornalisti: ecco perché siamo lì in massa.

Quando la musica finisce - una ventina di minuti in tutto - arriva il rompete le righe e corriamo tutti a intervistare qualcuno. Medinsky tiene una conferenza stampa e senza girarci intorno accusa l’Occidente di aver “sottovalutato” il problema dell’Isis e dovrebbe “assumersene le responsabilità”. Quindi equipara i crimine dello Stato Islamico a quelli dei nazisti nella seconda guerra mondiale. L’analogia è fin troppo chiara: siamo stati alleati allora, che pure c’era di mezzo la questione ideologica capitalismo-comunismo, pare assurdo non esserlo oggi, che invece siamo tutti sulla stessa barca. Io sul più bello (si fa per dire) vengo distratto da due ragazzi siriani che hanno voglia di parlare. Mi dimentico di segnare i loro nomi, sono onesto. In inglese rudimentale mi dicono che uno è originario di Homs e l’altro di Aleppo. Quello di Homs zoppica e l’amico mi spiega che l’Isis gli ha sparato a un ginocchio. Sono fuggiti perché le loro case non esistono più e ora sbarcano il lunario lavorando come possono e quando possono, nel caso in questione a far i facchini per i russi nella giornata del grande spettacolo. ‘Aleppo is burning’ continua a ripetermi uno dei due trasformando in testimonianza l’hashtag che da giorni rimbalza su Twitter mentre la sua città è travolta dall’ennesima ondata di violenza. “Good luck” mi dice salutandomi dopo che un militare russo gli fa cenno di raggiungerlo al teatro.

Ma io - penso stupito - sono già fortunato.
Anzi, ho proprio tutte le fortune del mondo, per lo meno rispetto a lui. Ricambio di cuore. E lo vedo andare via, anonimo sorriso per sempre stampato nella mia memoria e che mai rivedrò più.


Uno sminatore siriano addestrato dai russi


Good bye Hmeimim

Il viaggio di ritorno è infinito - oltre sette ore - e rispetto all’andata molto meno sereno. La copertura aerea non c’è più e sul primo bus, ci diranno poi alcuni colleghi, hanno obbligato tutti a viaggiare con le tende tirate. Da me non si arriva a quel punto ma comunque manteniamo un profilo basso. Crollo dal sonno solo nell’ultima parte del tragitto, giusto un’oretta prima di arrivare all’albergo, dove poi lotterò sino al giorno dopo, a poco meno di un’ora dalla partenza per Mosca, per trasmettere il materiale foto-video a Roma (wi-fi preso d’assalto, banda a singhiozzo).

Riesco così a vedermi un po’ di Siria in notturna. E vedo un paese costellato di paesini fantasma, case sbarrate, appartamenti vuoti e bui, interrotti qua e là da tristi luci al neon; per le strade girano pochissime auto e la vita - se così si può definire - riprende a pulsare solo fra Tartus e Latakia, dove ci stanno le basi dei russi. Ma anche qui la Siria mi pare un corallo morto, dove a sopravvivere è solo lo scheletro della vita: concessionari d’auto senza le auto, grandi cartelloni pubblicitari senza pubblicità, onnipresenti gigantografie di Assad. 

Il resto è burocrazia e lenta marcia fino a Mosca, un percorso a ritroso caratterizzato da un clima molto più rilassato: per i russi è missione compiuta, per noi, in fondo, pure. Io rimango a rimuginare per giorni sul significato di quello che ho visto, di quello che ho potuto vedere, di ciò che ho scritto e filmato, raccontato e analizzato attraverso la mia limitata prospettiva di giornalista embedded.

Spero di averlo fatto con onestà e trasparenza.
Ma non è compito mio giudicarlo.


Il viaggio in immagini

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