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Elezioni 2016
Il 18 settembre si tengono le elezioni per rinnovare la Camera bassa del Parlamento - la Duma - e le amminstrazioni regionali. Per le opposizioni il risultato è già scritto. L'appuntamento alle urne rimane però un test cruciale per verificare la tenuta del sistema di potere putiniano. Che intanto sta cambiando pelle.
In Russia le elezioni non contano, sono un esercizio di stile orchestrato dallo ‘zar’ e dai suoi uomini. E’ un ritornello che ricorre puntuale ogni qual volta si discute di politica con gli esponenti dell’intellighenzia moscovita - sempre meno intellettuali occhialuti e sempre più middle-class hipster - o i militanti delle opposizioni. Un gioco di ruolo dove (molti) partiti alternativi a quello di governo, Russia Unita, farebbero comunque capo al Cremlino, impegnato da anni in un gigantesco esperimento di ‘ingegneria’ politica, fedele alla massima romana divide et impera. Bene. E’ davvero così - sappiatelo.
Però c’è un però. All’indomani delle elezioni del 2011, inquinate da una sfilza di brogli, i russi scesero in piazza a più ondate come non accadeva dai tempi del tentato golpe del 1991 - giunto proprio quest’anno al suo 25esimo anniversario - chiedendo “elezioni vere”. Uno shock, per il Cremlino, ossessionato da quelle ‘rivoluzioni colorate’ che sostiene siano architettate dagli Stati Uniti per rovesciare i governi di paesi “non allineati”. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: il quadro macroeconomico è cambiato, la Russia è tornata con prepotenza a dare le carte al tavolo del Grande Gioco internazionale, Vladimir Putin ha varato diverse riforme, alcune draconiane, per minimizzare il rischio di ritrovarsi con un elettorato imbizzarrito e ha recentemente avviato un processo di rottamazione della classe dirigente a lui più vicina. Insomma, conteranno anche poco le elezioni in Russia, ma il 18 settembre è visto da molti osservatori come un test cruciale per capire da che parte tira il vento. Il Cremlino, per l’appunto, ha già sfoderato il sestante.
Il numero magico è 49,32%. Ovvero il risultato (ufficiale) di Russia Unita alle scorse elezioni, che ha fruttato il 52,88% dei seggi alla Duma, pari a 238 scranni. Una flessione rilevante rispetto al 64,30% delle preferenze del 2007 e al 70% dei seggi conquistati nella camera bassa del parlamento. Il trend dunque è chiaro. E questo è uno dei motivi che hanno spinto Putin a cambiare la legge elettorale in vigore: addio proporzionale puro, largo al sistema misto. Il ‘Cremlinum’ - vedi scheda - prevede infatti l’elezione di 225 deputati in liste nazionali proporzionali - in mano ai partiti - e 225 in collegi uninominali radicati nel territorio. Un ritorno al passato che rimescola le carte e che, da un lato, dovrebbe garantire più equità e partecipazione ma che, dall’altro, permette al Cremlino, sostengono alcuni osservatori, di mantenere saldo il controllo sulle urne senza nemmeno dover ricorrere ai brogli.
L’analista Alexei Makarkin ritene che il ritorno al sistema misto, già in vigore nella decade 1993-2003, beneficerà infatti Russia Unita. Se negli anni del boom le liste nazionali davano i loro frutti, sull’onda della popolarità, evitando il problema dei candidati eletti nei collegi uninominali, “più difficili da controllare”, ora che la crisi morde, invece, il brand non è più così forte. Dunque meglio tornare ai collegi. Magari, spiega Makarkin, con candidati “mascherati” da indipendenti ma in realtà telecomandati da Russia Unita. Il cui segretario è, ricordiamolo, Dmitri Medvedev, attuale primo ministro, ex presidente e alleato di ferro di Putin. Il firewall creato per gestire l’accesso ai collegi da parte di aspiranti deputati fa poi il resto. “Chi vuole presentarsi alle elezioni può raccogliere tutte le firme che vuole, come prevede la legge, ma le commissioni elettorali locali sono libere di rigettarle: i partiti sono semplicemente avvisati di non nominare candidati indesiderabili”, dice Andrey Pertsev del centro Carnegie di Mosca. Il vero filtro, dunque, avviene a monte, anni luce prima delle elezioni.
E per chi non si piega, ci sono altri metodi. Le opposizioni extra-parlamentari sono ormai virtualmente estinte: Alexei Navalni non è stato ammesso alle elezioni in virtù di due condanne per appropriazione indebita cucite su misura e i partiti di Mikhail Kasianov (Parnas) e Grigory Yavlinsky (Yabloko) viaggiano a percentuali di gradimento talmente basse che rischiano di non superare la soglia di sbarramento (il 5%). L’opposizione ‘di sistema’ - il Partito Comunista di Gennadi Ziuganov, in sella dal 1993, i Liberaldemocratici di Vladimir Zhirinovski e Russia Giusta di Serghei Mironov - potrà negoziare su alcune questioni ma, scrive il Moscow Times, è “saldamente sotto il controllo del Cremlino”. "Putin le elezioni ce le ha già rubate", accusa Kasianov senza mezzi termini (leggi intervista).
Ciò non significa che sia già tutto scritto. Restano alcuni fattori chiave in questa tornata elettorale da tenere d’occhio. Intanto il voto riguarda 39 regioni su 85 e dunque al quadro federale si somma quello locale, tradizionalmente più ‘poroso’ nei confronti dei partiti non di sistema. Poi alle urne si recherà questa volta anche la Crimea con i suoi 1,8 milioni di abitanti: l’affluenza e le preferenze saranno per Mosca un dato molto importante, che avrà potenzialmente dei riverberi internazionali e dunque delle ripercussioni sulla complessa partita di Putin in Ucraina. In ultimo, come già accennato, la crisi: è la prima volta dal 1995 che le elezioni politiche si celebrano sull’onda di una profonda recessione e ciò non avvantaggia mai - di norma - il partito di governo.
L’economia che non tira è la principale preoccupazione dei vertici del regime. E’ uno dei motivi che hanno spinto Viacheslav Volodin, tra i gran visir di Putin, con delega alla politica interna, ad allargare le maglie e permettere la possibilità - ma per ora è solo un’ipotesi - di una sorta di dissenso moderato. Tant’è vero che a capo della Commissione Elettorale è stato rimosso l’odiato Vladimir Churov, sinonimo di truffa e contestato duramente nelle manifestazioni di piazza Bolotnaya del 2011, e al suo posto è stata nominata Ella Panfilova, ex commissaria ai Diritti Umani. Non una creatura del Cremlino ma una figura politica rispettata e apprezzata anche dalle opposizioni.
Fin qui - più o meno - la carota. Ma dovesse servire c’è già pronto il bastone.
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Il 2016 probabilmente passerà agli annali come un anno chiave nella riorganizzazione degli strumenti del potere putiniano. Il presidente russo, lo scorso aprile, ha infatti istituito per decreto un “un nuovo corpo armato”, la Guardia Nazionale, in cui sono confluiti sia le odierne ‘truppe interne’, ovvero le forze di sicurezza responsabili per calamità e grandi rischi, sia i corpi di elite della polizia. Una riorganizzazione all'insegna “dell'efficienza”. Peccato che la Guardia Nazionale non risponde più al ministro dell'Interno ma, di fatto, al “comandante in capo” della Russia. Cioè Putin. A guidare il nuovo ente è Viktor Zolotov. Fedelissimo dello zar sin dai tempi di San Pietroburgo, prima della promozione - ora è membro del Consiglio di sicurezza e ha il rango (e lo stipendio) di un ministro - è stato a capo del servizio di sicurezza del presidente.
Alla Guardia Nazionale è stato affidato il compito di “combattere il terrorismo e il crimine organizzato” e proprio in virtù di queste sfide, si sottolinea, serviva una nuova ‘centralizzazione’ per evitare sovrapposizioni e inefficienze. Ma il timore di una svolta autoritaria è più che fondato: il nuovo corpo sarà infatti coinvolto nella “repressione di manifestazioni non autorizzate”. “Il terrorismo non c'entra nulla”, spiega Pavel Felgenghauer, esperto militare e analista per Novaya Gazeta. “Lo scopo è d'istituire un esercito per combattere il popolo russo quando fra un anno o due ci saranno problemi in piazza, visto le condizioni economiche sempre peggiori del Paese. Nel 2011 si è visto che il sistema attuale non funzionava, perché le truppe interne sono composte da ragazzi giovani, poco ‘vigorosi’, e i corpi di elite, richiamati da ogni parte della Russia, avevano addestramenti diversi: ora invece il Cremlino avrà a disposizione dei pretoriani”.
A completare il quadro ci pensa un giro di vite del quadro normativo, l’ormai nefasta riforma che porta il nome della deputata Irina Yarovaya, tra le più discusse e controverse approvate dalla Duma uscente. La stretta è severissima e ha implicazioni anche per i diritti civili, visto che d'ora in poi sarà reato “l'istigazione o il coinvolgimento nell'organizzazione di disordini di massa”, punito con pene detentive dai 5 ai 10 anni. E a farne le spese saranno persino i minori dai 14 anni in su. Non solo. La ‘Yarovaya’ prevede provvedimenti da Grande Fratello per gli operatori telefonici e i provider internet, tanto da far insorgere la talpa del Datagate, Edward Snowden, che proprio qui ha trovato asilo: “Per la Russia - ha detto - è un giorno nero”. Le misure, oltre a inasprire pene e procedure per tutto ciò che concerne i reati legati al terrorismo - vedi box - introducendo, tra le varie cose, la "mancata denuncia" - punita con il carcere - d'informazioni relative ad “attività terroristica, colpi di stato o complotti omicidi ai danni di uomini di governo", obbligano le società di telefonia e di erogazioni di servizi internet a conservare per sei mesi i dati di traffico fra gli utenti (inclusi foto, video, audio e messaggi) e i metadati (in questo caso per tre anni). Una mole enorme d'informazioni. Se applicata, la legge potrebbe costare al settore delle telecomunicazioni - recitano le ultime stime - fino a 138 miliardi di euro. Una cifra insostenibile.
Lo zar però è andato avanti lo stesso, salvo intimare al governo di “monitorare” l'attuazione della legge e introdurre “tutti i correttivi necessari” per “minimizzare l'impatto economico” sul settore delle telecomunicazioni. Insomma, soluzioni si troveranno. La stessa Yarovaya ha poi sottolineato che il tipo di dati da conservare dovrà essere "specificato" dal governo ma saranno coinvolti “solo” quelli che riguardano il terrorismo. L'impianto draconiano della legge ad ogni modo resta e c'è chi l'ha definita "la più repressiva della Russia post-sovietica", forse persino dalle tinte staliniane, specie nella sua parte che ritiene ogni cittadino perseguibile se non denuncia le (possibili) informazioni in suo possesso.
Se dunque le fosche previsioni di Felgenghauer dovessero mai avversarsi, il Cremlino avrebbe un bell’arsenale su cui poter contare. “Putin - ha commentato lapidario Alexei Venediktov, direttore di Radio Eco di Mosca - si sta preparando alle elezioni del 2018”. Ovvero quando i russi dovranno votare per l’unica carica che conta davvero: la presidenza.
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L’orizzonte a cui si guarda davvero dunque è il 2018 e in questo scenario le elezioni politiche e amministrative del 18 settembre sono un test per assicurarsi la tenuta del sistema. Che Putin abbia in mente una strategia lo si vede anche dalla recente e nutrita lista di ‘trombati’ eccellenti. Una rottamazione che ha coinvolto posti chiave dell’amministrazione e che svela un cambio di direzione nell’identikit della classe dirigente: meno Vecchia Guardia e più Uomini Nuovi. Ovvero illustri sconosciuti - dicono i maligni - facilmente controllabili.
La grande purga, a ben vedere è iniziata con Vladimir Iakunin, costretto l’anno scorso a lasciare la sala comandi delle ferrovie russe (Rzd) dopo un decennio d’incontrastato dominio. A sostituire il 68enne amico di lunga data del leader del Cremlino è arrivato Oleg Beloziorov, 46 anni, vice ministro dei Trasporti e soprattutto - racconta il quotidiano Vedomosti - uomo di fiducia dei potentissimi fratelli Arkadi e Boris Rotenberg: due oligarchi arricchitisi in modo inverosimile in epoca putiniana e colpiti dalle sanzioni occidentali per la crisi ucraina. Putin comunque non fa precipitare nel vuoto chi ha fatto parte del suo “cerchio magico”, e così anche per Iakunin aveva preparato un comodo paracadute: un seggio da senatore. Il governatore dell'enclave baltica di Kaliningrad, Nikolai Tsukanov, aveva infatti candidato l'amico di dacia del presidente a rappresentare la regione al Consiglio della Federazione. I giochi sembravano fatti, Iakunin non sarebbe stato scaricato del tutto, ma avrebbe visto la sua influenza ridimensionata. Il diretto interessato però ha cortesemente declinato l’invito.
Una decisione peraltro forse comprensibile: il Senato a Mosca ha solo una funzione rappresentativa, mentre le ferrovie statali russe sono un colosso mondiale con 835mila dipendenti e 86mila chilometri di linee ferroviarie. Da capo di Rzd, Iakunin gestiva decine di miliardi di dollari. E godeva di un potere tale da permettersi di dire la propria sui problemi economici del paese e sulla politica estera, al punto da minimizzare sulle sanzioni americane per la crisi ucraina - da cui lui stesso è stato colpito - paragonandole alle zanzare siberiane: fastidiose ma non letali.
L'ex boss di Rzd comunque non si è ritirato a vita privata: qualche mese fa ha lanciato l’Istituto di ricerca ‘Dialogo delle civiltà’ (Doc), un ente che si occupa di questioni di politica ed economia internazionali, ma che secondo alcuni analisti non è che uno dei tanti strumenti di propaganda del Cremlino. Subito dopo essere stato costretto a mollare il timone delle ferrovie russe, Iakunin lanciò un avvertimento ai pezzi grossi vicini a Putin: non considerino i loro privilegi come dei diritti inalienabili perché “la ruota continuerà a girare”.
Ci aveva visto bene.
Ancor più clamorosa è stata la rimozione di Serghei Ivanov da capo dell’amministrazione presidenziale, un posto delicatissimo di potere immenso, c’è chi dice ancor più della poltrona da primo ministro, e per questo affidata a un amico di vecchia data. I cremlinologi a quel punto si sono scatenati ed è stato un profluvio di vaticini, dedicati appunto alla nouvelle vague in corso. “La lista di amici consegnati alla pensione non farà altro che crescere”, analizza il putinologo Andrei Kolesnikov. “Saranno rimpiazzati da una generazione di 40/50enni pescati nei servizi di sicurezza e forze speciali”. Con un’apertura ai “tecnici e funzionari d’apparato”. Politici di carriera, insomma, il cui compito è di essere “abbastanza efficienti” da gestire la crisi economica e possibili “rivolte politiche” e “sufficientemente fedeli” per garantire che il 2024, scadenza del secondo mandato di Putin dopo le elezioni del 2018, “non porti calamità alla nazione o allo stesso zar”. Una strategia di lungo periodo, quindi. Che secondo Kolesnikov non lascia scampo a vane speranze. “La liberalizzazione della sfera politica russa avverrà solo se il presidente lo desidera; se l’ordine sarà invece di avvitare i bulloni fino al punto di rottura quell’ordine verrà eseguito. Non esiste nessun consiglio segreto per l’ideazione e l’attuazione di riforme né le riforme sono possibili nella politica interna ed estera della Russia”.
Anton Vaino, il sostituto di Ivanov, è dunque divenuto il modello a cui tutti guardano per capire di che pasta deve essere fatto l’Uomo Nuovo putiniano. La girandola degli avvicendamenti, infatti, non si limita alle cariche politiche ma sta tracimando nel cruciale mondo degli apparati di sicurezza, dove ormai è in corso una vera e propria guerra, non priva di colpi bassi (vedi approfondimento).
E il bello è che probabilmente siamo solo all’inizio.
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“I regimi non cadono per la penuria di cannoni, ma perché viene a mancare il consenso”. Così la pensa Grigory Yavlinsky, che definisce il sistema di potere putuniano come “antiquato”, in “ritardo” rispetto ai tempi e dunque destinato a “dissolversi”. Il punto non è se ma quando. E non è una differenza da poco. Secondo il leader di Yabloko - vedi intervista - in Russia il vento “sta girando” ma non si può dire se sia già abbastanza per generare un cambiamento a breve termine. Di certo pare sempre più precaria la posizione di Dmitri Medvedev, che potrebbe alla fine pagare il conto per tutti.
Il premier, tanto per cominciare, non è al massimo della popolarità. Sconta in prima persona le conseguenze della crisi che sta mettendo in ginocchio la Russia tra “guerra” delle sanzioni e calo del prezzo del petrolio. Come capo del governo, l’opinione pubblica considera lui – e non l’inafferrabile Putin – il responsabile della politica economica. Ma Medvedev sconta anche – nota la politologa Tatiana Stanovaia – il fatto di essere “un cattivo politico, un tecnocrate, un professorino”. Traduzione: una persona che “non sa parlare alle nonnine e agli insegnanti”. Stanovaia si riferisce a due recenti gaffe. La prima Medvedev l’ha fatta a maggio in Crimea: “Non ci sono soldi... resista!”, ha detto a una vecchietta che si lamentava per il basso valore delle pensioni. A inizio agosto poi la chicca: a una domanda sugli stipendi da fame degli insegnanti, ha semplicemente risposto che chi vuole far soldi non deve insegnare, ma piuttosto buttarsi nel mondo degli affari. Risultato: è stata lanciata una petizione online per chiedere le dimissioni di Medvedev e in circa 24 ore sono state raccolte 165.000 firme. Non proprio una bella figura per l’ex delfino di Putin - e si sa che Putin non ama fare brutte figure, neanche indirettamente.
Sarà forse un caso ma tra luglio e agosto Russia Unita è sprofondata nei sondaggi. L’istituto demoscopico (indipendente) Levada nel suo ultimo bollettino ha indicato che solo il 31% dei russi dichiara di volerla votare, in calo rispetto al 39% di luglio. Il dato si riferisce però a tutti gli intervistati, senza distinzione tra chi ha scelto di recarsi alle urne e chi, invece, non ha intenzione di votare o non ha ancora deciso. Tra chi invece ha scelto, e si recherà alle urne, il 50% confida di voler votare Russia Unita, in calo rispetto al 57% di luglio. Una crisi di consensi pericolosa per Putin (e Medvedev) tanto che la rappresaglia è arrivata puntuale: il centro Levada pochi giorni fa è stato incluso nella lista di organizzazioni considerate ‘agenti stranieri’ e dunque sottoposta a diverse restrizioni. “Ora rischiamo di chiudere e con noi se ne andranno i sondaggi indipendenti”, ha detto il direttore del centro Lev Gudkov. Un segnale di nervosismo da parte del Cremlino? Forse. Molti comunque credono che la voglia di cambiamento che serpeggia nel paese Putin la soddisferà offrendo al popolo la testa di Medvedev - imprimendo così un’accelerazione ulteriore al processo di rottamazione già in corso.
Gli scenari disegnati dai cremlinologi ipotizzano un ritorno in grande stile di Alexiei Kudrin, l'ex ministro delle Finanze ora a capo del Consiglio del Centro per la Ricerca Strategica, a cui verrebbe offerta la poltrona di capo del governo, oppure la promozione di Serghei Sobyanin, sempre al posto di Medvedev, dato come futuro presidente della Duma o della Corte Suprema. Tutto può essere. A decidere, alla fine, è sempre solo Putin, ormai impegnato in una corsa contro il tempo per cercare di risollevare l’economia russa, mettere fine al travaso di risorse tra i due fondi sovrani di riserva del Paese e il bilancio federale corrente, ridotto comunque all’osso, e porre fine alle misure di contenimento della spesa così dannose per il consenso - e non a caso le riforme più pesanti sono state rimandate a dopo il 2018.
Ad ogni modo, l’onnipresenza di Putin - e la sua popolarità, che resta stellare - sono da una parte una legittimazione per l’attuale regime ma dall’altra la debolezza più marcata. “Questo livello di personalizzazione - sottolinea Boris Makarenko, presidente del Centro di Scienze Politiche - complica la possibilità di un futuro passaggio di poteri, poiché tutte le istituzioni e le figure più potenti dipendono ormai completamente da Putin e dal suo carisma”. Circostanza che impedisce semplicemente di passare lo scettro del comando a un successore. “Tutto questo - continua Makarenko - rende il regime ancor più nervoso nel pre-elezioni: Putin resta la sua unica fonte di popolarità, legittimazione e funzionalità”.
Dopo Vladimir, insomma, il diluvio.
E se l’orizzonte da prendere in considerazione è quello del 2024 - ogni mandato presidenziale è infatti di sei anni - le politiche del 18 dicembre sono le elezioni che porteranno il Paese all’ultimo incarico di Putin al Cremlino. Così la prossima Duma potrebbe diventare una sorta di riserva di caccia del presidente per scovare nuovi volti da promuovere e forse anche il suo possibile successore. Che stando allo stesso Putin dovrà essere “giovane ma maturo”. Cioè come lo era lui quando ricevette lo scettro da Boris Eltsin in quell’ormai lontano 31 dicembre del 1999.
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