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In corso un risiko globale per vincere la sfida
La richiesta di gas naturale è in crescita in tutto il mondo. La Russia di Putin è il principale esportatore di metano e una bella fetta della ricchezza nazionale - e del suo peso politico - dipende dall'oro blu. Ma gli Usa, grazie alla rivoluzione dello shale gas, sono entrati nella partita: ed è in corso un risiko globale per vincere la mano.
Tutti lo vogliono, molti lo cercano, pochi ce l’hanno. E se lo tengono stretto oppure lo vendono al miglior offerente. Perché è la fonte fossile di gran lunga più pulita e duttile, sempre più richiesta a livello globale. E’ il metano. Da questa estate al centro di una lotta feroce tra Washington e Mosca - per tacer di Bruxelles - a colpi di sanzioni e mastodontici gasdotti. La Russia è il primo paese esportatore di gas naturale, il secondo produttore poco dopo gli Stati Uniti. La Gazprom è il colosso incaricato dal Cremlino di gestire l’oro blu russo: economia e politica, in questo caso, vanno a braccetto. E per Mosca lo scacchiere sta diventando sempre più globale. Ecco perché il 2018 potrebbe essere il tassello d’inizio di una lunga guerra: la guerra del gas.
Stando agli ultimi dati - provvisori - dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) per il 2015, la produzione mondiale di gas naturale si attesta a 3.590 miliardi di metri cubi (o mmc) Al primo posto della classifica dei paesi produttori - sin dal 2009 - figurano gli Stati Uniti, con 769 mmc; sul podio seguono la Russia (638) e l’Iran (184); il resto della top-ten è composta da Qatar (164), Canada (164), Cina (134), Norvegia (122), Arabia Saudita (87), Turkmenistan (83) e Algeria (82). Se si guarda però alla classifica degli esportatori netti le cose cambiano e la Russia resta salda al primo posto (192 mmc) seguita da Qatar e Norvegia, entrambi con una quota da 115 miliardi di metri cubi. I paesi invece che importano più metano sono il Giappone (117 mmc), la Germania (73) e l’Italia (61). Seguono la Cina, la Turchia, la Corea, la Francia, il Messico, il Regno Unito e la Spagna. Insomma, l’Europa occidentale e i colossi asiatici. Che poi sono i mercati di riferimento dei paesi produttori. Il quadro di riferimento potrebbe però cambiare a breve e drasticamente.
“Il mercato del gas naturale - sostiene la Iea - sta subendo una trasformazione fondamentale. L'industria ha superato il settore energetico come forza trainante del crescente utilizzo del gas, grazie all'aumento della domanda in luoghi come la Repubblica Popolare Cinese, l'Asia sviluppata, il Medio Oriente e gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, i cambiamenti strutturali nella fornitura di gas e nel commercio stanno mutando il mercato globale del gas. I mercati fortemente ‘sovraccaricati’ di offerta, la continua rivoluzione del gas di scisto negli Stati Uniti, la seconda ondata di capacità di liquefazione aggiuntiva proveniente dall'Australia e dagli Stati Uniti, e il rapido traffico di LNG, stanno interrompendo i modelli tradizionali del gas e dei prezzi: ciò sta costringendo i produttori a ridefinire le loro strategie e ad esplorare nuovi mercati”. Per la Russia questo è uno scenario potenzialmente da incubo.
“Nei prossimi anni - sostiene Mikhail Krutikhin, esperto di sicurezza energetica del Carnegie di Mosca - il mercato del gas sarà sempre più influenzato da gas naturale liquefatto (LNG), che può essere scambiato come merce comune in tutto il mondo, senza contratti connessi a condotte di lunga percorrenza. L'offerta di gas liquefatto supererà notevolmente la domanda fino al 2022-2024, quando saranno introdotti nuovi progetti e le gasiere supereranno i gasdotti”. “Gazprom - continua Krutikhin - ha perso il proverbiale treno del gas liquefatto ed è già stata costretta a fare affidamento sul dumping dei prezzi per mantenere la sua posizione in Europa: non è chiaro per quanto tempo il monopolista russo possa permettersi di vendere gas in perdita”.
La Gazprom, dal canto suo, contesta questo scenario e sostiene che non dovrà concedere nessuno sconto. “Se si guarda alla prima metà del 2017 - sottolinea un portavoce della compagnia - le forniture di gas all’Europa sono salite del 12,5% rispetto al 2016 mentre quelle algerine del 6,9% e quelle norvegesi del 2%. Parlare di un aumento nella competizione è dunque esagerato. Tant’è vero che i rigassificatori sono pieni al 25% della loro capacità. Questo significa che il nostro gas, legato perlopiù ai prezzi del petrolio, è già abbastanza competitivo, già favorito dal mercato”. La Russia, insomma, ha ancora frecce nella faretra. Non ultima la sua posizione geografica, che la rende il partner energetico privilegiato dell’Europa e ha permesso a Gazprom di esportare nel 2016 179,3 miliardi di mmc di gas. Un record che, a quanto pare, nel 2017 potrebbe essere battuto portando l’export a 185 miliardi di mmc. La Russia, di fatto, nei primi sei mesi dell’anno ha coperto il 30,7% del fabbisogno Ue di metano. Il Qatar - stando a Kommersant - nello stesso periodo ha ridotto le consegne in Europa del 10,2% dirottando le attenzioni verso il mercato asiatico.
“Le leggi della fisica, quando si parla di metano, non si possono piegare”, spiega all’ANSA un ex dirigente della Gazprom. “E’ difficile sia la produzione che lo stoccaggio. Ecco perché prima si vende e poi si produce: il gas deve essere consumato in fretta altrimenti la qualità scende. Da qui la logica dei contratti a lungo termine, che garantiscono sia il produttore che il consumatore. Il gasdotto sarà dunque sempre più concorrenziale rispetto alle gasiere su una tratta di 5-6mila chilometri”.
Sempre che le condizioni di mercato non mutino dalla sera alla mattina.
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Le ultime sanzioni imposte dagli Usa alla Russia menzionano apertamente la contrarietà di Washington a progetti “come il Nord Stream 2” e dicono chiaro e tondo che gli interessi degli esportatori americani di gas naturale di scisto “vanno garantiti”. Il presidente russo Putin non a caso ha reagito con rabbia espellendo dalla Russia oltre 700 diplomatici americani definendo le sanzioni “un palese tentativo” di Washington “di usare i propri vantaggi geopolitici allo scopo di assicurarsi interessi economici a scapito degli alleati”. Un concetto reso ancora più esplicito dal ministro degli Esteri Serghei Lavrov. Gli Usa, ha detto, cercano “sia di avere un legame atlantico con l'Europa sia, allo stesso tempo, di fare gli interessi delle proprie compagnie energetiche: e lo fanno spudoratamente, usando metodi completamente sleali dal punto di vista della concorrenza”. Gli Stati Uniti, giocando in punta di metafora, vogliono avere l’Europa sobria ma la gasiera vuota.
“Io credo che le opzioni fornite dalla nuova legislazione Usa contro le esportazioni provenienti dalla Russia siano certamente un’azione preparatoria a una guerra del gas”, dice all’ANSA Alexei Grivach, vice direttore del Centro di Sicurezza Energetica Nazionale. “Questo non è un confronto tra gli Stati Uniti e l'Ue contro Mosca bensì un atto ostile di Washington contro la Russia e contro l'Europa. Gli Usa hanno infatti chiarito che sono pronti ad agire senza tener conto degli interessi dei partner europei, aumentando i ricavi delle esportazioni attraverso la concorrenza sleale sul mercato europeo, che significa perdite per le imprese, una riduzione della sicurezza energetica e in generale della competitività globale dell'Ue”. L’ultima versione della legge, sottolinea Grivach, è stata annacquata rispetto alla bozza iniziale anche grazie alla pressione di Bruxelles sugli americani - i ministeri degli Esteri di Germania e Austria hanno emesso a suo tempo una dichiarazione congiunta ‘di fuoco’ accusando gli Usa, sostanzialmente, di violazione della sovranità nazionale. Ma la legge lascia mani libere al presidente d’imporre sanzioni aggiuntive senza l’intervento del Congresso o del Senato. “Se Trump rincarerà la dose - conclude Grivach - allora non solo finiranno nel mirino Nord Stream 2 e TurkStream, ma anche un numero enorme di fornitori europei di energia, di tubi, attrezzature e servizi, un'ampia gamma d’istituzioni finanziarie… è davvero un problema per la sovranità dell'Ue in materia di sicurezza e politica energetica”.
Ora, detta così sembra che Bruxelles e Mosca sul gas vadano d’amore e d’accordo e che le nuove rotte di approvvigionamento dell’oro blu - per l’appunto il raddoppio del Nord Stream, che dovrà portare a regime, considerando anche le due linee già attive, 110 miliardi di metri cubi di gas annui direttamente in Germania, e il possibile prolungamento del TurkStream verso l’Europa meridionale - procedano spedite verso la realizzazione. Non è così. Entrambi i progetti sono sotto pressione. La rotta nord, oltre a rappresentare fumo negli occhi per gli Usa, è osteggiata con forza dall’Ucraina, che al momento ospita il gigantesco gasdotto Urengoy-Uzhgorod da oltre 140 miliardi di metri cubi (potenziali) annui. Le royalties di transito fruttano a Kiev 2 miliardi di dollari all’anno oltre che una leva politica non da poco nei confronti di Mosca. Che poi è il motivo per cui la Russia vuole bypassare l’Ucraina. In origine le ‘dealine’ era stata fissata per il 2018, anche in considerazione del fatto che i contratti di transito con l’Ucraina scadranno nel 2019. Ora Gazprom sembra disposta a inserire un più blando principio di gradualità. La decisione per l’Italia è ad ogni modo d’importanza strategica visto che il grosso del gas acquistato e consumato dal nostro Paese - attraverso i contratti Eni - avviene proprio alla fine del gasdotto ucraino, presso la stazione austriaca di Baumgarten.
“L'ostacolo principale ai negoziati energetici tra la Russia e l'Ue è lo scontro tra le loro percezioni sulla sicurezza energetica”, dice Krutikhin. “Mosca sostiene che la più grande minaccia per la sicurezza energetica europea sia l'affidabilità dell'Ucraina come paese di transito mentre Bruxelles ritiene che la costruzione di nuovi gasdotti russi che aggirino l'Ucraina non farà nulla per migliorare la sicurezza energetica dell'Ue. L'Ue, infatti, sottolinea che l'Ucraina non ha mai violato i propri obblighi di transito mentre la Russia ha chiuso i rubinetti in alcuni dei giorni più freddi nel 2006 e nel 2009 e poi ha tagliato notevolmente il volume delle esportazioni verso l'Europa alla fine del 2014, ogni volta per motivi politici: Bruxelles ritiene che la vera minaccia per la sicurezza energetica europea non sia l'Ucraina, ma piuttosto l'imprevedibilità delle autorità russe”.
Il tema è molto delicato e cruciale, appunto, per un continente, l’Europa, sempre più dipendente dal gas. Eppure la verità, come spesso accade quando si tratta d’intrighi internazionali, non è detto sia unica e incontrovertibile. “Non siamo stati noi a tagliare volontariamente le forniture”, assicura l’ex dirigente della Gazprom. “Sono stati gli ucraini a bloccare il transito del gas a valle e noi non abbiamo potuto fare altro che fermare le stazioni di pompaggio nel nostro territorio: noi abbiamo perso un sacco di quattrini perché abbiamo dovuto pagare penali salatissime per non aver rispettato i contratti”. La fissazione di Mosca con le rotte alternative all’Ucraina nasce insomma ben prima dell’Euromaidan. E per ragioni non solo politiche. “Il gasdotto Urengoy-Uzhgorod - continua la fonte - è in pessime condizioni e la reale capacità di trasporto si sta riducendo: questa è colpa di Kiev che per anni non ha investito nella manutenzione dell’infrastruttura”. Morale. Per riportare il gasdotto alle condizioni ottimali servirebbero “più soldi” di quanto costa oggi una nuova condotta. Ecco perché Gazprom - e il Cremlino - spingono tanto per il Nord Stream 2 e per il TurkStream: meno condizionamenti e più efficienza.
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La vicenda della rotta sud per l’Italia è un tasto dolente. Nato come South Stream - partnership tra Gazprom ed Eni - è naufragato sugli scogli del terzo pacchetto energia dell’Ue e una generale opposizione della Commissione. Putin ha sostenuto che l’Italia avrebbe potuto “lottare di più a Bruxelles” per quel progetto ma ormai è andata com’è andata. Tanto il piano - che avrebbe portato il gas russo direttamente in Ue approdando in Bulgaria - è rinato sotto il nome di TurkStream. Il gasdotto è in costruzione - sono già stati posati 170 chilometri di tubi sul fondo del Mar Nero - e secondo il ministro dell’Energia turco Berat Albayrak “sarà attivo entro il 2019”. Il progetto prevede una condotta da 16 miliardi di metri cubi annui dedicata al mercato turco e una equivalente per quello sud-europeo, posto che la commissione Ue fornisca “garanzie” per la realizzazione dell’opera. Traduzione: scordatevi un South Stream 2.0. E qui entra in ballo il Poseidon.
Gazprom, la società greca Depa e il gruppo italiano Edison hanno infatti firmato un accordo di cooperazione finalizzato alla realizzazione di una rotta meridionale di approvvigionamento del gas russo in Europa. Allo scorso Forum Economico di San Pietroburgo è stata siglata la seconda fase del protocollo per la realizzazione del gasdotto. Alla firma dell'accordo - che prevede il passaggio allo sviluppo dei piani industriali - era presente il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda. “La Final Investment Decision la aspettiamo entro la fine del 2018: il progetto si farà”, ha detto l'ad di Edison Marc Benayoun, che ha rivelato come la società stia studiando un progetto “multisource” per portare il gas del mar Mediterraneo verso il sud Italia.
“Il progetto Poseidon per noi è fondamentale: serve a riequilibrare la rotta nord di approvvigionamento del gas, il Nord Stream, con la rotta sud”, ha sottolineato a suo tempo Calenda. “In passato questa rotta è stata bloccata ma ora deve rinascere e avrà un impatto sui prezzi dell'energia: la nostra strategia energetica nazionale è basata sul gas, individuata come energia di transizione fino a che le rinnovabili non saranno sviluppate e che ci consentirà di adempiere agli accordi di Parigi, che restano validi non solo per proteggere l'ambiente ma anche per modernizzare l'economia”.
>Il problema, per la Russia, è che la rotta sud inizia ad essere piuttosto affollata. In Italia, oltre al Poseidon, arriverà anche il Tanap azero, che tante polemiche sta suscitando in Puglia intorno al punto di approdo scelto. “A differenza del gas russo pompato attraverso l'Ucraina e la Germania quello che attraversa la Turchia dovrà affrontare una dura concorrenza”, mette in guardia Krutikhin. “La Turchia si aspetta di diventare il paese di transito per il gas esportato in Europa dall'Iran e dal Kurdistan iracheno e anche il gas del Turkmenistan e di Israele potrebbero potenzialmente alimentare questo percorso. I rivali di Gazprom in Turchia non dovranno pompare il loro gas dalla penisola di Yamal in Siberia verso il Mar Nero o spendere tanto denaro sulla costruzione di condotte”.
Se poi si aggiunge la scoperta da parte di Eni del megagiacimento Zohr in Egitto - altri 850 miliardi di metri cubi di gas oltre ai 1000 miliardi di quello israeliano - si capirà che le opzioni non mancano. Perlomeno sulla carta. “Il mercato del gas nell'Europa sud-orientale e meridionale non è così grande e non ha molto spazio per la crescita: la concorrenza nella regione sarà pertanto particolarmente aggressiva, anche senza considerare l'eccesso di offerta globale di gas liquefatto, e la Russia dovrà offrire sconti significativi che non giustificano le spese di produzione e di trasporto”, sentenzia Krutikhin.
Ma, secondo l’ex dirigente di Gazprom, dalle mappe geografiche bisogna passare ai fatti ed è qui che iniziano i problemi. “Si parla molto di gasdotti off-shore ma alla fine non si faranno e si userà la tecnica della liquefazione: ecco perché il gas israeliano ed egiziano non sostituiranno mai il gas russo consegnato con il tubo poiché il prezzo in quel caso aumenterebbe nettamente”. Analisi condivisa da Danila Bochkarev dell’East-West Institute di Bruxelles, secondo cui la competizione fra tubo e LNG risulta una condizione ideale per i consumatori europei. “La scomparsa di una delle componenti dell’offerta, in particolare il metano russo dei gasdotti, porterebbe immediatamente a un’impennata dei prezzi sul mercato: il gas di Mosca ha un effetto deterrente sugli aumenti potenziali degli operatori LNG”. Secondo Bochkarev, il prezzo da pagare per non avere accesso ai gasdotti si è visto chiaramente lo scorso 20 gennaio nel sud della Francia dove il metano è arrivato a costare 500 euro per 1000 metri cubi, ovvero “più del doppio” degli hub che ricevono l’oro blu russo.
E poi c’è il caso Lituania. “Per una decisione squisitamente politica - confida la ‘gola profonda’ di Gazprom - Vilnius ha deciso di acquistare gas liquefatto norvegese. Che costa di più di quello russo. Il governo ha dunque approvato una legge che obbliga a diversificare l’approvvigionamento del gas per una quota di almeno il 25% sul totale: l’aumento del prezzo è stato mascherato da una politica di sussidi ma di fatto la Lituania paga ora il suo gas 10-15 dollari in più a metro cubo”. La Lituania è diventata poi il 21 agosto il primo stato ex sovietico a ricevere una consegna di gas liquefatto dagli Usa, mossa altamente simbolica - e politica - che però, assicura il ministro dell’Energia lituano Zygimantas Vaiciunas è stata fatta con un occhio al portafoglio visto che il gas Usa è stato acquistato a prezzi “competitivi” con quello russo.
Riassumendo. Se essere dipendenti da Mosca può portare a dei rischi di natura politica, scollegarsi dal tubo non è possibile perché condannerebbe l’Europa - in particolare la Germania e l’Italia - a uno squilibrio nei prezzi proprio nel momento in cui Berlino e Roma stanno puntando sul gas per riequilibrare il proprio paniere energetico - ma non solo: in Gran Bretagna, ad esempio, il gas occupa il 90% della quota assegnata ai fossili per la produzione di energia. Detto questo, la ‘gasplomazia’ del Cremlino passa dalle nuove rotte di approvvigionamento sia per stringere legami con nuovi e vecchi alleati europei sia per mostrare agli stati vassalli - passati, presenti e futuri, vedi il caso Ucraina e Turchia - che mettersi contro Mosca non è mai una buona idea. L’Europa, d’altra parte, ha bisogno sì di acquistare gas ma la Russia ha pure bisogno di venderlo, vista la dipendenza dell’erario dai proventi di gas e petrolio (circa il 40% del bilancio).
Diversificare - riducendo le quote di rischio geopolitico - è dunque essenziale.
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La ‘piroetta’ a Oriente, contromossa strategica decisa da Vladimir Putin a pochi mesi dallo scoppio dell’Euromaidan a Kiev e al conseguente isolamento della Russia sanzionata dai partner occidentali, si concretizza plasticamente il 21 maggio del 2014, quando Vladimir Putin e Xi Jinping firmano l’accordo per la costruzione del gasdotto Sila Sibiri - Forza della Siberia - destinato a innervare la nuova relazione speciale tra Russia e Cina. Il contratto di fornitura avrà una durata di 30 anni, porterà 38 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, e vale circa 200 miliardi di euro. Il prezzo pattuito fra Mosca e Pechino per l’oro blu siberiano è però top-secret, uno dei segreti meglio custoditi della Russia di oggi. La ragione, ovviamente, non è solo commerciale: il delta fra tariffe europee e cinesi - qualora ve ne sia uno, va detto - rappresenta il prezzo che Putin è disposto a pagare pur di crearsi una exit-strategy a Est.
In Asia, infatti, il gas costa di più per quel discorso di frammentazione del mercato di cui sopra e dunque il ‘punto di caduta’ è difficile da calcolare. Il problema però è che mentre il tubo avanza nelle steppe - l’inizio della fornitura è stato stabilito nel corso della visita trionfale di Xi Jinping a Mosca nel luglio scorso: 20 dicembre 2019 - il quadro generale cambia vertiginosamente. La Cina ha recentemente annunciato di aver raggiunto il terzo posto al mondo nella produzione di shale gas dopo Usa e Canada. Secondo il Quotidiano del Popolo il volume di produzione autoctona nel 2016 è stato pari a 7,9 miliardi di metri cubi ed entro la fine del 2017, grazie agli ultimi investimenti, Pechino conta di arrivare a 10 miliardi l’anno (il solo giacimento di Fu-Lin custodisce oltre 600 miliardi di mmc di gas di scisto).
Per Gazprom non si tratta di una buona notizia. Al di là del rapporto strategico fra Russia e Cina sbandierato da Putin, il Dragone è un negoziatore formidabile e nell’impostare la sua strategia energetica di lungo periodo non intende fare beneficenza. Quindi, se è vero che al momento il metano non spicca ai primi posti del paniere energetico cinese - 62% carbone, 19% petrolio, 13% fonti non fossili e 6% gas - è anche vero che entro il 2030 dovrà salire al 15% e l’import, già entro il 2020, dovrebbe raddoppiare, fino a quota 150 mmc. Anche il Dipartimento per gli Affari Energetici di Pechino conferma che i consumi di gas nei prossimi 15 anni cresceranno - del 76% - ma l’intenzione è di coprire l’aumento di domanda con la produzione interna. Insomma, la Cina è interessata all’oro blu russo ma con juicio, tant’è vero che Gazprom e l’omologa cinese Ncp hanno firmato sì un’intesa di massima per una seconda linea dalla Siberia - lo spezzone occidentale da 30 miliardi di metri cubi l’anno - ma senza arrivare ad un accordo commerciale. Traduzione: stanno ancora a carissimo alleato. Per inquadrare il nocciolo della contesa basteranno due dati tratti da un’analisi del quotidiano economico Vedomosti: al tempo della firma dell’accordo sul gasdotto Forza della Siberia 1000 metri cubi di gas in Asia costavano 600 dollari, mentre oggi vengono ‘solo’ 270; d’altra parte, produrre 1000 mc di gas di scisto costa alla Cina fra i 90 e i 150 dollari, mentre a Gazprom non più di 20. La virtù, in questo caso, non è detto stia in mezzo.
La Cina, ad ogni modo, per la Russia non è l’unico mercato di sbocco a Oriente. L’India e il Giappone, infatti, sono le due altre grandi nazioni affamate di gas e ad oggi sconnesse dai gasdotti. Non è dunque un caso se il ministro dell'Energia russo Alexander Novak ha firmato, nel corso dell’ultimo Forum Economico di San Pietroburgo, un memorandum d'intesa della durata di 5 anni con i rispettivi colleghi di Pakistan, Iran e India per portare il gas naturale russo (o iraniano, dettaglio non da poco) nel subcontinente indiano. Gazprom avrebbe già selezionato due possibili rotte con costi di realizzazione compresi fra i 5,7 miliardi di dollari e i 16,5 miliardi, a seconda delle opzioni. Il premier indiano Narendra Modi è stato l'ospite d'onore del Forum. Il progetto attuale prevede di affidare alle compagnie nazionali “uno studio di fattibilità che individui le opzioni di realizzazione e l'approvvigionamento delle risorse”. Nel caso in cui le compagnie dovessero decidere di andare avanti, si passerà agli accordi intergovernativi. Ma anche qui tra il dire e il fare c’è di mezzo l’intrigo. “L’America - confida l’ex dirigente di Gazprom - per ora è riuscita a bloccare il gasdotto attraverso il Pakistan ma si parla già di una condotta fino agli Emirati Arabi e da lì in India”. La guerra tra Mosca e Washington è dunque viva e vegeta pure sul fronte orientale, dove gli Usa - similmente a quanto accade in Europa - contano di incassare anni di rapporti privilegiati quando di non vera e propria tutela. E questo è il caso del Giappone.
In Russia molto si è scritto su un possibile rinascimento nei rapporti fra Tokyo e Mosca, il cui sviluppo potrebbe essere “potenzialmente infinito” - parole del premier nipponico Shinzo Abe. Il Giappone importa il 100% del gas che consuma e lo fa per via delle gasiere: ‘allacciarsi’ alla Russia potrebbe garantirgli un sontuoso sconto sulla bolletta. Gazprom ha già ricevuto richieste in questo senso e i tecnici sono al lavoro. Non è facile. I fondali del Pacifico, in piena zona sismica, non sono dei più adatti e i costi potrebbero superare i benefici. Far entrare il Giappone fra i propri clienti per il Cremlino è però senz’altro allettante. “Se un tale progetto si dimostra economicamente fattibile e le imprese sono interessate, noi lo sosterremo”, ha sottolineato Novak. “Ma è troppo presto per speculare su decisioni specifiche: prima deve essere fatto uno studio approfondito”. Anche perché se è vero che la Russia è saltata tardi sulla nave del gas liquefatto, ora è determinata a recuperare il tempo perduto. Con un sorprendente asso nella manica: lo scioglimento dei ghiacci.
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Gazprom, a Oriente, può già contare sull’impianto di liquefazione di Sakhalin - in partnership con Shell - e le intenzioni sono di continuare a investire per sviluppare la produzione. Ma non c’è dubbio che l’attenzione di Mosca ora è tutta per la penisola artica di Yamal, dove la Russia pensa di poter produrre - a regime - 360 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Laggiù, in mezzo ai ghiacci, sta sorgendo un ciclopico impianto di liquefazione che presto potrebbe cambiare non pochi assetti nel risiko globale del metano. Il progetto Yamal LNG, oltretutto, parla un po’ italiano poiché gode di un finanziamento da 400 milioni di euro erogato da Intesa Sanpaolo e garantito dalla Sace, la società del gruppo Cdp per l'assicurazione del credito all'estero, che andrà a favore di contratti di subfornitura assegnati a Nuovo Pignone (sussidiaria di Ge Oil & Gas) e a un gruppo di 20 imprese italiane specializzate in tecnologie per l'oil&gas, in prevalenza pmi.
Il progetto, del valore complessivo di 27 miliardi di dollari, prevede la costruzione di un impianto integrato di liquefazione di gas naturale proveniente dal giacimento di Tambey sud e destinato ai mercati europei e asiatici. Una volta realizzato Yamal LNG sarà una delle più grandi facility del settore nell'Artico e incorporerà il porto di Sabetta, un nuovo aeroporto e una centrale elettrica da 380 megawatt. Lo sviluppo e la gestione dei lavori sono affidati alla società veicolo Yamal LNG detenuta dal colosso russo NOVATEK, dal gruppo cinese CNODC, da Total e dal fondo d'investimento Silk Road Fund. Le grandi manovre per trasformare in realtà il passaggio a Nord-Est sono già iniziate. A fine agosto una gasiera russa ha infatti attraversato per la prima volta le acque dell'Artico russo dall'Europa all'Asia senza l'aiuto di un rompighiaccio. La nave, la Christophe de Margerie, realizzata apposta per questo tipo di viaggi, ha percorso la rotta settentrionale carica di gas liquefatto e in tempi record: sei giorni e mezzo.
Si tratta della prima nave cisterna rompighiaccio al mondo e la Russia prevede di vararne altre 14 dello stesso tipo nei prossimi anni. In questo modo, secondo la società statale russa SovComFlot, proprietaria della nave, sarà possibile attraversare la rotta marittima settentrionale tutto l'anno, e non solo nei mesi più caldi. E per raggiungere l'Asia si risparmierà il 30% del tempo rispetto al tragitto tradizionale che prevede di passare dal Canale di Suez. La Christophe de Margerie - battezzata come l’ad di Total morto in un incidente aereo in Russia - è partita dalla Norvegia e ha impiegato 19 giorni per raggiungere la Corea del Sud. Ovvero l’ultimo grande ‘eldorado’ del metano in Asia.
Il (sesto?)senso di Mosca per la neve ha innescato un vero e proprio ritorno in grande stile a presidiare la frontiera più settentrionale del Paese, dopo la smobilitazione degli anni Novanta post-crollo. Il Cremlino ha infatti deciso di investire molto per la reconquista dell’Artico anche da un punto di vista militare - suscitando le preoccupazioni dei paesi limitrofi, della Nato e degli Usa. In aprile è stata inaugurata la nuovissima base di Trefoil, vicina all’arcipelago norvegese di Svalbard, nel mare di Barents. La base è progettata per ospitare 150 soldati per un massimo di 18 mesi e sarà inoltre dotata di una pista d’atterraggio per aerei d’attacco come il MiG-31 e il bombardiere Su-34.
“Non c'è dubbio che nell'Artico sia in pieno svolgimento un’avanzata russa”, ha scritto recentemente Stefan Hedlund, analista del Geopolitical Intelligence Services. “Il nuovo comando Artico creato nel dicembre 2014 ha un programma ambizioso, tra cui sei nuove basi, quattro nuove brigate, 14 aeroporti, 16 porti d’acque profonde e 50 rompighiaccio: gran parte di questa infrastruttura è stata risuscitata dai giorni della Guerra Fredda ma alcuni progetti, come Trefoil e la base navale di Shamrock sull'isola Kotelny nella Siberia Orientale, sono del tutto nuovi”. Se dunque, da un lato, si tratta di un ritorno al passato, dall’altro le ultime tecnologie rendono la presenza russa nella regione artica molto più insidiosa. Mosca ha piazzato “sistemi di difesa aerea a lungo raggio S-400” a Novaya Zemlya in Occidente e a Tiksi in Oriente, schermati da sistemi missilistici “Pantsir-SA a corto raggio”; le basi costiere sono inoltre protette da razzi supersonici anti-nave “P-800 Oniks” ed entro il 2025 l'Artico sarà pattugliato “da uno squadrone di bombardieri stealth PAK DA di nuova generazione”. Il perché di questo sforzo enorme ha due spiegazioni.
Il Polo Nord, stando allo U.S. Geological Survey, custodisce infatti il 13% delle riserve petrolifere ancora non scoperte del mondo e oltre il 30% di quelle di gas naturale: una cornucopia che fa gola a tutte le grandi compagnie energetiche, nonostante al momento il crollo dei prezzi di greggio e metano non rendano monetizzabili esplorazioni tanto costose. L’altro aspetto ghiotto è, appunto, la potenziale navigabilità del corridoio Nord-Est. “Rispetto al passaggio tradizionale attraverso il canale di Suez - spiega Hedlund - la rotta artica riduce la distanza da Rotterdam a Shanghai del 22% consentendo un notevole risparmio; ed è inoltre priva della pirateria che ha costretto le compagnie di navigazione a investire pesantemente nella sicurezza”. Sia che si tratta di riserve che di rotte a beneficiare maggiormente dello scioglimento dei ghiacci è “senz’altro la Russia, che possiede il 50% del territorio artico, ospite dell’80% delle probabili riserve energetiche”.
Hedlund, come altri esperti, tende a smorzare però l’impatto geopolitico della rotta nord, che al momento è più un esercizio di stile per gli addetti ai lavori. “Anche nel momento di maggior traffico - sottolinea - il numero di transiti annuali era inferiore a quelli giornalieri del canale di Suez. E due terzi di questi sono stati effettuati da navi russe”. Le gasiere-rompighiaccio potrebbero però cambiare il quadro. Trasformando la rotta artica nell’ennesimo fronte della guerra del gas.
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