(di Lorenzo Trombetta)
Una copia del Corano ben stretta al petto e un fucile automatico alzato in aria: si presentano così le miliziane sciite irachene, pronte a morire "sulla via del jihad" per "difendere le loro case" ma soprattutto l'influenza iraniana in Medio Oriente, che in Iraq passa per un appoggio quasi incondizionato al premier sciita Nuri al Maliki, accusato da più parti di aver accelerato lo sgretolamento del Paese su linee etniche e confessionali. Velate da testa ai piedi e con scritte inneggianti al martirio, queste miliziane irachene in altre epoche sarebbero definite "terroriste". Ma di fronte al pericolo qaedista che minaccia gli interessi convergenti di Russia, Stati Uniti e Iran, sono ora descritte come "resistenti" e "madri di famiglia" che imbracciano il kalashnikov "per proteggere i luoghi santi sciiti" del loro Paese. Le autorità di Baghdad hanno stimato nei giorni scorsi che circa un milione di persone - per lo più sciite - si sono arruolate nelle milizie filo-governative formate per far fronte all'offensiva dello Stato islamico, un gruppo armato che un mese fa ha conquistato Mosul, la seconda città irachena, e che in un anno è diventato di fatto padrone di un territorio grande quanto l'Ungheria tra Siria orientale e Iraq occidentale. Tre giorni dopo la caduta di Mosul, il Grand Ayatollah Ali Sistani, la più importante autorità sciita dell'Iraq e di tutto il Medio Oriente, aveva emesso una fatwa (parere giuridico non vincolante) in cui invitava gli iracheni ad arruolarsi come volontari nelle milizie lealiste.