Pilal è il 62, Kensy il 123, Amin il 46: per ognuno di loro c'è un pezzo di carta con un numero, il nome, una foto, la data di nascita e il paese di provenienza. Al polso un braccialetto bianco con un numero, uguale per maschi e femmine, adulti e adolescenti. Sono i disperati di Pozzallo, le centinaia di migranti che sono ammassati in quello che la burocrazia dell'immigrazione chiama hotspot, vale a dire un Centro dove chi sbarca dovrebbe rimanere 72 ore, per essere fotosegnalato e idenfificato, e poi essere trasferito in strutture più adeguate. Invece non è così e nell'hotspot di Pozzallo, dicono gli operatori umanitari, si rimane anche un mese.
Il problema è che il Centro è una struttura dove non dovrebbero esserci esseri umani: perché un capannone in cemento armato piantato alla fine del porto commerciale in mezzo al nulla, al massimo dovrebbe ospitare un magazzino. Dentro, invece, ci sono 300 persone, 150 delle quali non hanno neanche 18 anni.
Cinque sono i bagni in totale, uno ogni 60 persone. Tutt'attorno, all'interno e all'esterno della recinzione, non c'è un un albero, una macchia di verde. Solo cemento che s'arroventa d'estate e si riempie di pozze quando piove, come oggi. Come se non bastasse, alla recinzione in metallo qualche mente illuminata ha aggiunto delle assi di legno: chi sta fuori non vede dentro e chi sta dentro non vede la luce del sole.
A sorvegliare questo monumento all'accoglienza sbagliata, due camionette dell'esercito, neanche fosse un obiettivo sensibile per i terroristi, polizia e carabinieri.
"Non c'è spazio, siamo troppi - dice Pilal, scappato dalla Somalia 2 anni fa quando aveva 14 anni - Io voglio andare in Germania da mia zia, qui non si può stare, non c'è neanche un telefono funzionante". E' vero, che non c'è un telefono: la prova è la fila di eritrei davanti all'unica cabina pubblica sul lungomare di Pozzallo.
Il capannone è diviso in due parti: sulla sinistra ci sono i letti a castello, 180 posti la capienza ufficiale; a destra quella che chiamano "la stanza delle donne", un ambiente più piccolo con un minimo di privacy in più. In teoria, perché quando i posti sono la metà delle persone ospitate, ogni regola salta. "Là dentro siamo tutti insieme - spiega infatti Kensy, che è arrivata tre settimane fa dalla Nigeria - mangiamo, dormiamo e andiamo in bagno tutti insieme, uomini e donne, adulti e minorenni".
Ma cosa fate tutto il giorno? "Nulla - allarga le braccia Amin - aspettiamo". E' vero anche questo: decine di adolescenti in calzini e ciabatte girano per il cortile dell'hotspot, fanno una passeggiata verso il centro del paese e tornano indietro. Ogni giorno, tutti i giorni è così. Ogni tanto qualcuno scappa e fa perdere le proprie tracce, ma in molti tornano al capannone.
"La questione principale - spiega Domenico Verdoscia di Terres des Hommes - è trovare le strutture di accoglienza per i minori. Questo non è un centro idoneo a chi avrebbe bisogno di ben altro trattamento. Ma ci sono poche strutture a disposizione e dunque restano qui". Sarebbe utile, aggiunge "che ci fosse una banca dati contenente tutte le strutture per i minori, in modo da conoscere immediatamente la disponibilità di posti ed evitare che vivano in uno stato di promiscuità e semisegregazione".
Ogni tanto qualcuno di loro esce dal centro e si allontana di non più di 300 metri in linea d'aria, dall'altra parte del varco di accesso al porto. Lì c'è il cimitero dei barconi con i quali questi disperati sono arrivati. I pescherecci e i gommoni ormai sgonfi stanno ammassati l'uno sull'altro. Dentro ancora i segni della traversata: scarpe, bottiglie vuote, vestiti ridotti a stracci, decine di giubbotti salvagente, qualche coperta termica, un materasso fradicio di pioggia. Amin, cosa cerchi? "Le mie scarpe, le ho perse quando ci hanno salvato. Pure se sono distrutte sono sempre meglio di queste ciabatte".