(di Eloisa Gallinaro)
Non sarà impiccata e avrà un nuovo processo Meriam Yahia Ibrahim Ishag, la donna di 27 anni incinta di otto mesi condannata a morte da un tribunale di Khartoum per "apostasia" perché cristiana pur avendo un padre musulmano. E' stata un ong sudanese, Sudan Change Now, ad accreditare questo filo di speranza e a precisare che gli avvocati hanno avuto rassicurazioni importanti sul fatto che la nuova sentenza sarà pronunciata, fra poche settimane, dalla Corte suprema e "non prevederà la pena di morte". Intanto la giovane cristiana resta in carcere, con un altro figlio di 20 mesi, dopo essere era stata arrestata lo scorso febbraio in seguito alla denuncia di un parente. In ogni caso, ha fatto notare un esperto alla Cnn, l'esecuzione della condanna a morte non potrebbe essere immediata anche solo tenendo conto di come, in Sudan, viene applicata la Sharia. Nella fattispecie la legge islamica in vigore in Sudan vieta l'esecuzione di donne incinte al momento della sentenza di morte: per tutelare il nascituro e i suoi primi anni di vita, la condanna a morte deve essere posticipata a due anni dopo il parto. La mobilitazione che sta attraversando il mondo per salvare la giovane, condannata pure a 100 frustate con l'accusa di "adulterio" per aver sposato un cristiano, ritiene comunque di aver portato a casa una "vittoria" proprio con la "campagna per Meriam". Che anche in Italia ha destato commozione e raccolto adesioni eccellenti. "Mi unisco alla campagna di Avvenire #Meriamdevevivere. L'Italia farà sentire la sua voce anche nelle sedi diplomatiche #Libertàdifede". Così il premier Matteo Renzi si unisce su Twitter alla campagna lanciata ieri dal quotidiano dei vescovi italiani che ha promosso anche una petizione raccogliendo le adesioni sul sito o via mail. Il ministro degli Esteri Federica Mogherini, da New York, dove ne ha parlato con il segretario Onu Ban Ki-moon, ribadisce che la lotta contro la pena di morte nel mondo sarà "una delle priorità" della presidenza di turno italiana dell'Ue. In campo anche la Francia, con una dichiarazione del portavoce del ministero degli Esteri, Romain Nadal, che "condanna" la decisione e chiede alle autorità sudanesi di "garantire la libertà di religione". Adesione alla campagna twitter di Avvenire anche da parte del governatore del Veneto, Luca Zaia. E Franco Corbelli, del Movimento Diritti Civili, invita "tutti i sindaci delle città italiane ad esporre una foto di Meriam dal palazzo municipale, così come è stato fatto per altre iniziative umanitarie". Sarà inoltre dedicato a lei e a tutti i cristiani e i musulmani discriminati nel mondo il convegno organizzato dalle Comunità del mondo arabo in Italia (Comai), il prossimo 20 maggio a Roma, alla vigilia della visita di papa Francesco in Terra Santa. Già nei giorni scorsi numerose ambasciate occidentali e varie ong erano scese in campo a sostegno della donna, cresciuta come cristiana ortodossa, religione della madre, mentre il padre, musulmano, aveva abbandonato presto la famiglia. Meriam si è poi sposata con uno cristiano del Sud Sudan, ma il suo matrimonio non è considerato valido perché contrario alla Sharia, in vigore in Sudan dal 1983. Inoltre, secondo la legge islamica, se il padre è musulmano, la figlia deve automaticamente essere della sua stessa fede religiosa. La sentenza di ieri - definita "ripugnante" da Amnesty International - aveva destato shock e sconcerto. Il giudice Abbas Mohammed Al-Khalifa si era rivolto all'imputata chiamandola con il nome arabo, Adraf Al-Hadi Mohammed Abdullah, e le aveva chiesto se rifiutava di convertirsi nuovamente all'Islam. "Io sono cristiana e non ho commesso apostasia", era stata la replica della giovane. Quindi la sentenza, agghiacciante. "Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare - aveva proseguito il presidente della Corte - ma tu continui a non voler tornare all'Islam e dunque ti condanno a morte per impiccagione".