A Downing Street lo aspettavano tutti tre anni fa, all'indomani di quel referendum sull'uscita della Gran Bretagna dall'Ue di cui fu l'uomo simbolo. Ci arriva ora, riafferrando per i capelli il suo destino, spinto dalla promessa - avventurosa agli occhi di molti - di strappare dallo stallo una Brexit impantanata e di chiudere i conti con Bruxelles il 31 ottobre cascasse il mondo, deal o no deal. Boris Johnson è il nuovo leader del Partito Conservatore, designato a subentrare a Theresa May, dopo l'incarico formale dalla regina, anche sulla poltrona di primo ministro.
Nuova guida del governo e di un Regno in cerca affannosa di certezze nel momento forse più delicato della sua storia dalla Seconda guerra mondiale.
Popolare e pittoresco, quanto discusso, è stato eletto a valanga - senza sorprese - nel ballottaggio con il ministro degli Esteri Jeremy Hunt, suo successore al Foreign Office, deciso da una base in larga misura bianca, matura ed euroscettica di 159.000 iscritti Tory: il 66,4% dei voti a lui, più o meno la metà al poco carismatico rivale.
Ed è stato accolto in modo diverso sulle due sponde dell'Oceano. Un cortese atteggiamento improntato al pragmatismo del 'wait and see' in Europa; l'entusiasmo del gemello diverso Donald Trump negli Usa. Il proclama della vittoria è stato in linea col personaggio, espresso con ottimismo e toni tribunizi dal podio della sala di Westminster in cui il presidente del partito, Brandon Lewis, aveva appena finito di officiare il rito della lettura dei risultati dopo un mese e mezzo di procedure elettorali interne.
"Attuare la Brexit, unire il Paese, sconfiggere Jeremy Corbyn" sono gli obiettivi che il premier entrante ha snocciolato fra gli applausi della platea, inclusi quelli di suo padre Stanley, di sua sorella Rachel e di suo fratello Jo, tutti biondi come lui, ma diversamente da lui pro Remain. Non senza ribadire di volere l'uscita dall'Ue come "cosa fatta il 31 ottobre".
Per tagliare il traguardo ha sbandierato le armi dell'unità (in un partito che in effetti resta diviso), colorando di retorica l'omaggio di maniera alla May e a Hunt, ma soprattutto uno spirito positivo sul futuro. Occorre "ridare energia" al Paese, ha scandito, giurando di non essere "spaventato dalla sfida". E ricorrendo anche all'autoironia quando non ha negato alle voci critiche il diritto di "contestare la saggezza della scelta" fatta in casa Tory. Voci critiche che non mancano fra le forze di opposizione, con Corbyn che a nome del Labour raccoglie il guanto additando Boris quale espressione di una minoranza "di ricchi", invocando elezioni anticipate e denunciando il rischio di un disastro per i posti di lavoro e per l'economia legato a un divorzio da Bruxelles senz'accordo: scenario temuto ormai come "probabile" dal mondo del business. Mentre dalla neoleader LibDem, Jo Swinson, ritorna la richiesta di un secondo referendum sulla Brexit e dagli indipendentisti scozzesi dell'Snp la minaccia di un bis di quello sulla secessione della Scozia.
Il dissenso cova del resto sotto la cenere pure fra i Tories, al di là delle felicitazioni e delle dichiarazioni di lealtà di giornata, con le dimissioni o l'annuncio di dimissioni di ministri e sottosegretari della corrente delle colombe: pronti alla pugna, malgrado la prima nuova nomina sia quella del moderato Mark Spencer a capogruppo (Chief Whip) ai Comuni, se davvero Johnson - che dice di volere un'intesa con l'Ue depurata dal backstop sul confine aperto irlandese, ma senza rinunciare all'extrema ratio del no deal - si avvierà alla fine verso un taglio netto dai 27 pur di rispettare la scadenza di fine ottobre. Da Washington intanto Trump saluta l'avvento di "un grande primo ministro" per la Gran Bretagna. Mentre da Bruxelles e dalle cancellerie europee arrivano solo le caute aperture al dialogo di Ursula von der Leyen e di Michel Barnier, di Emmanuel Macron e di Giuseppe Conte.
Oltre agli ammiccamenti di Angela Merkel su un possibile riesame del backstop. Anche se Frans Timmermans avverte che l'Ue resta fedele all'accordo che Boris dà per "morto": quello raggiunto con Theresa May a novembre, e già bocciato tre volte a Westminster senza remissione.