Il quadro normativo italiano sulla violenza contro le donne è assolutamente adeguato; quello che manca ancora è una diffusione capillare della specializzazione degli operatori che entrano in contatto con una donna che denuncia, dai medici alle forze dell'ordine, per evitare pericolose sottovalutazioni nei casi di violenza di genere. A parlarne con l'ANSA, nel Centro "Maree" del Trullo a Roma, è l'avvocato penalista Rita Mone, dell'Associazione Differenza Donna, organizzazione che gestisce alcuni Centri Antiviolenza a Roma e fuori.
I Centri Antiviolenza e la case rifugio sono dei presidi sparsi sul territorio, baluardi, "laboratori sociali", come ama definirli che ci lavora, dove si incontrano le specializzazioni di varie figure professionali che collaborano perché la donna possa emanciparsi dalla violenza. Molte volte le donne qui trovano per la prima volta nella vita una persona che le riesce a capire e questa persona è l'operatrice, spiegano nel centro.
Il Centro "Maree" del Trullo a Roma, uno di quelli gestiti dall'Associazione Differenza Donna, è stato aperto nel 2000 su bando della Provincia di Roma. Accoglie annualmente 350-400 donne vittime di violenza, fornisce accoglienza telefonica 24 ore su 24 a chi ne ha bisogno, con un'operatrice sempre presente. "Alcune donne ci contattano inizialmente solo per informazioni - racconta Loredana De Rosa, psicologa dell'associazione - ; altre arrivano in emergenza, indirizzate attraverso vari canali (il numero 1522, le forze dell'ordine, gli ospedali, ....)". In questa casa famiglia trovano ospitalità fino ad un massimo di otto nuclei familiari, donne e bambini sfuggiti ad un contesto di violenza: si tratta dei casi a maggior rischio. Vengono poi accolte di giorno molte donne per consulenze di vario genere, sostegno psicologico, colloqui di lavoro.
In Italia ci sono buone leggi per contrastare la violenza sulle donne - come la legge sul femminicidio del 2013 - e i provvedimenti cautelari per allontanare un uomo violento da una donna si possono prendere subito: è anche così, infatti, che si tante donne sono riuscite a salvarsi. "Abbiamo in mano - spiega l'avvocato Mone - tutti gli strumenti per fronteggiare la violenza di genere. Quello che noi dobbiamo pretendere è la specializzazione degli operatori che entrano in contatto con le vittime di violenza. Accade troppo spesso invece che vengono sottovalutati i rischi che corrono le donne, anche se questi rischi vengono portati a conoscenza delle autorità competenti. Noi non possiamo più accettare che il destino di una donna vittima di violenza dipenda dalle persone che incontra sul suo cammino".
Dai medici negli ospedali alle forze dell'ordine, il personale deve essere sempre pronto e qualificato, in grado di attivarsi immediatamente cogliendo rischi e leggendo il pericolo. E' vero che ci sono sezioni specifiche nella Squadra Mobile e nei Carabinieri, e ci sono giudici specializzati che fanno un ottimo lavoro. Ma non è affatto sempre così. Spesso c'è ancora una sottovalutazione della violenza contro le donne e a volte le donne che denunciano non vengono credute. Spesso una donna deve giustificarsi, portare prove. Le donne che subiscono maltrattamenti in famiglia vengono spesso colpevolizzate, dall'uomo che usa violenza ma spesso anche al di fuori delle mura domestiche. "Capita perfino - spiega l'avvocato - in sede di denuncia o in tribunale che alla donna venga chiesto 'che cosa abbia fatto per provocare quella reazione?'".
Cosa è accaduto a Latina, teatro dell'ultima strage, dove un carabiniere ha ucciso le due figlie e ridotto in fin di vita la moglie? "Questo caso è l'emblema del potere maschile sulle donne. Non è stata data la giusta attenzione alla richiesta di aiuto di questa donna - commenta l'avvocato Mone -. Questa donna aveva fatto tutto ciò che poteva fare, aveva fatto richieste di aiuto formali, presentando l'esposto, aveva chiesto anche l'aiuto informale di persone vicine a lei e tutto questo non è stato attenzionato in modo adeguato. E' mancata, a mio avviso, una risposta adeguata delle istituzioni". Le operatrici tengono a veicolare un messaggio importante: che sono tantissime le donne che si salvano perché gli strumenti ci sono.
Quanto all'uomo violento, c'è sempre un identikit così come nelle storie di violenza c'è sempre almeno una costante. L'uomo violento, spiegano gli esperti, non ha una progressione lineare della violenza. La storia di violenza nasce con malumori e questioni molto sottili finché non si accumula tensione che poi esplode in una scarica, con minacce e insulti. Spesso la violenza fisica viene ancora dopo. Poi ci sono dei periodi di tregua, e anche questi sono una costante in quasi tutti i casi: in questi momenti l'uomo chiede perdono, anche se dà sempre la responsabilità alla donna ("Se tu non avessi fatto così..."). Ecco perché la donna aspetta, perché pensa sempre che la violenza rientri. Va contraddetta anche la visione comune di donne deboli perché sottomesse: spesso, spiega l'avvocata Rita Mone, ci troviamo di fronte a donne forti, troppo forti, che spesso per questo pensano di poter resistere.
"Siamo vittime di un retaggio culturale - commenta l'avvocato - , quello per cui la famiglia va salvata a tutti i costi. Ma il padre violento non è un buon padre. I figli che hanno anche solo assistito alla violenza hanno danni profondi. Ecco che la posizione dei giudici e dei tribunali non può essere troppo neutrale ed equidistante", come se ci si trovasse di fronte ad un affido condiviso all'interno di una coppia 'normale'.
Cosa deve fare una donna vittima di violenza? "Deve chiamare subito il 1522, il numero verde nazionale antiviolenza - ricorda l'avvocato penalista -. Qui troverà la voce di una persona specializzata che le darà il recapito del centro antiviolenza più vicino alla sua abitazione".
"Ciò che lascia maggiore frustrazione in chi si trova a gestire un centro antiviolenza - racconta la psicologa Loredana De Rosa, dell'Associazione Differenza Donna - è non riuscire a far fronte a tutte le richieste di ospitalità. Sappiamo che le denunce sono solo la punta dell'iceberg e pure sono tantissime. Sicuramente il numero dei centri antiviolenza e delle case rifugio andrebbe incrementato". La situazione dei finanziamenti dei centri antiviolenza, dopo anni di incertezze, "dovrebbe andare a migliorare - afferma la psicologa - perché finalmente negli ultimi anni si è cominciato a parlare di un Piano antiviolenza nazionale, sia a livello di Dipartimento Pari Opportunità sia a livello di Regioni. Andrebbero però maggiormente garantite la stabilità e la continuità dei fondi. Non si può rimanere nell'empasse delle varie amministrazioni".
E poi c'è la testimonianza di chi ce l'ha fatta. Suvada, una donna montenegrina, ha subito e sopportato per 13 lunghi anni le più svariate violenze da parte di suo marito italiano: violenze psicologiche e fisiche, violenze sessuali, offese e ingiurie. Fin quando ha trovato la forza di scappare di casa con i suoi tre figli, di 3, 8 e 10 anni. Suvada era dominata psicologicamente dall'uomo che amava e ricattata anche dal punto di vista economico. E così ha ingoiato per una vita bocconi amari, umiliazioni e percosse per paura che il marito le togliesse i figli o facesse una strage. E' stata accolta con il nucleo familiare nel centro Maree nel 2009-2010 dove è stata aiutata a ritrovare serenità e autostima. Poi con il tempo ha trovato un lavoro. Il percorso guidato non termina con l'uscita dal centro antiviolenza, ma i legami con il centro continuano nel tempo. Oggi Suvada ha una nuova vita, si sente di nuovo "donna e madre", sorride e può tornare ad essere felice. Suvada è così nella condizione di poter dare un consiglio alle altre donne: "Non subite i maltrattamenti, chiamate il centro antiviolenza più vicino a voi o il 1522. Reagite".