Nell'estate del 1992 la prima Repubblica è a un passo dalla fine, ma i suoi protagonisti ancora non lo sanno. Al governo c'è Giulio Andreotti, a piazza del Gesù c'è Arnaldo Forlani, mentre il Psi è guidato da Bettino Craxi. Entro pochi anni finiranno tutti e tre nella tormenta giudiziaria, ma ora sono il CAF, il potente patto a tre che regge l'Italia affacciata su Tangentopoli. L'alleanza di governo è uscita ridimensionata dalle elezioni di aprile (meno cinque per cento alla SDc) ma tutto sommato tiene, anche se per qualcuno cominciano i primi guai giudiziari (gli ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri, entrambi socialisti, sono stati incriminati alla vigilia del voto presidenziale) .
E ora, dopo l'uscita anticipata di Cossiga (un paio di mesi rispetto alla scadenza del suo mandato) il terzetto che governa il paese deve risolvere il rebus del Quirinale. Giulio Andreotti è un democristiano atipico: ha una sua corrente formata da fedelissimi pronti a tutto, quasi un partito nel partito, e anche per questo il resto dei democristiani non lo ama. E' un politico navigato con ottimi agganci nelle cancellerie mondiali e Oltretevere, perfetto come ministro e presidente del consiglio, ma alla guida dello scudocrociato non l'hanno mai voluto. La sua intelligenza politica, in passato, gli ha suggerito di tenersi alla larga dalla competizione quirinalizia, ma questa volta sa che, come contraente dell'alleanza di ferro con Forlani e Craxi, la partita se la può giocare. Nei giorni che precedono la convocazione dei grandi elettori, a Piazza del Gesù scudocrociato si discute se sia meglio candidare Andreotti o Forlani. Quest'ultimo ostenta indifferenza e disinteresse. Giura che preferisce fare il segretario del partito piuttosto che andare nella "prigione dorata" sul più alto dei sette colli di Roma. Andreotti, da vecchia volpe della politica, non si fa irretire e si mostra ancora più disinteressato di Forlani. Il balletto va avanti qualche giorno, fino all'incontro risolutivo. A Palazzo Chigi, seduti uno di fronte all'altro, tra un sorriso e una tazzina di caffè Forlani rassicura Andreotti: "Davvero, Giulio, il candidato giusto sei tu".
Il progetto prevede che Andreotti vada al Quirinale, Craxi prenda il suo posto a Palazzo Chigi, mentre Forlani continuerà a guidare la Dc. Paolo Cirino Pomicino e Nino Cristofori, i due uomini-macchina della corrente andreottiana, sono pronti a mettersi in moto per raggranellare voti. Ma tempo tre quarti d'ora e arriva la doccia gelata: una telefonata del ministro dell'Interno Enzo Scotti, che annuncia a Cirino Pomicino il "non possumus" del correntone doroteo alla candidatura di "Giulio": i dorotei vogliono che il candidato sia Forlani. Il 15 maggio l'assemblea dei grandi elettori a scrutinio segreto, indica il candidato ufficiale: è Arnaldo Forlani, che ha il pieno appoggio di Craxi. Tutto fatto ? Nemmeno per sogno. Dopo il rituale delle candidature di bandiera nelle prime tre votazioni, ancora una volta la prova dell'aula taglia le gambe alle candidature più granitiche: Forlani parte male (gli mancano 39 voti per raggiungere il quorum), insiste, ma deve fermarsi a 29 voti dal traguardo: 479 voti sui 508 necessari. Non è un mistero per nessuno che la pattuglia andreottiana ha deciso di vendicarsi in questo modo del siluramento del grande capo. Forlani, sconsolato, capisce che la partita è chiusa e il 17 annuncia il suo ritiro. Le votazioni procedono tra tensioni e sospetti: per evitare che venga tradita la segretezza del voto viene allestita una cabina chiusa dove riempire la scheda, sotto il banco della presidenza, subito soprannominata "il catafalco". Forlani tenta di salvare il salvabile stringendo un patto con Craxi in favore del giurista socialista Giuliano Vassalli. E' una mossa disperata e Forlani lo sa bene: la dc ormai è una orchestra senza direttore, e i capicorrente si fanno la guerra. Il 22 maggio Vassalli viene impallinato da un centinaio di franchi tiratori e si ferma ben al di sotto del quorum. "Che spettacolo stiamo offrendo..." commenta Forlani, che in tarda serata si dimette da segretario della Dc.
Nel pomeriggio del 23 maggio un boato sull'autostrada Palermo-Punta Raisi, a mille chilometri di distanza da Montecitorio, mette fine allo spettacolo di inconcludenza che stanno offrendo i grandi elettori: la bomba che uccide il giudice Giovanni Falcone, la compagna Francesca Morvillo e cinque uomini della scorta innesca una reazione immediata nei corridoi di Montecitorio. Il nome di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Camera, è stato proposto all'inizio delle votazione da Marco Pannella: da allora solo i radicali e pochi altri l'hanno costantemente votato, nella speranza che prima o poi anche gli altri partiti si renderanno conto che il profilo di Scalfaro, difensore della Costituzione e della legalità repubblicana, è quello giusto per ridare centralità e autorevolezza alla politica. Ma già da qualche giorno i leader dei partiti hanno capito che per uscire dal vicolo cieco in cui si sono ficcati bisognava puntare su uno dei due presidenti delle Camere: il repubblicano Spadolini e , appunto, il democristiano Scalfaro. La strage di Capaci non lascia tempo per altri bizantinismi. Scartato Spadolini per l'ostilità dei socialisti, la ruota gira presto in favore di Scalfaro, cattolico integerrimo (negli anni '50 aveva fatto scalpore una sua lite in un ristorante romano con una signora che indossava un vestito troppo scollato) ma anche uomo indipendente e sopra le parti. Anche Achille Occhetto, mettendo a tacere qualche mugugno interno, schiera il Pds a favore di Scalfaro. Il 25 maggio il nuovo presidente viene eletto con un'ampia maggioranza, che all'inizio delle votazioni nessuno avrebbe potuto prevdere: 672 voti, praticamente tutti i partiti tranne i missini, i leghisti e Rifondazione comunista. Pannella aveva visto giusto. Poi toccherà a Carlo Azeglio Ciampi.