Unione Europea addio. Le elezioni britanniche più importanti degli ultimi decenni consegnano a Boris Johnson una larghissima maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016 diventa irreversibile.
Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.
Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone 'Get Brexit done', è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s'erano impegnati a convocare un secondo referendum sull'Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento. Una chance che Johnson non intende neppure prendere in considerazione, avendo giocato la partita per restare a Downing Street sulla falsariga di un unico e solo obiettivo: portare a casa la Brexit, quella Brexit di cui a suo tempo è stato il testimonial referendario simbolo, archiviare "l'incertezza" e permettere al Regno di guardare avanti.
Premessa, nella sua retorica, per passare poi al varo di piani d'investimenti nella scuola, nella sanità e per la sicurezza finanziati da una manovra di bilancio ad hoc. Piani meno ambiziosi e certo molto meno rivoluzionari rispetto al programma radicale tracciato sulla carta durante la campagna di queste settimane nel 'libro rosso' di Corbyn, ma anche meno inquietanti per l'establishment, il business, la classe media agiata.
L'orizzonte di Boris è adesso orientato a fare i conti con i numeri esatti del Parlamento eletto, che sarà inaugurato la settimana prossima e dinanzi al quale il nuovo governo dovrà presentare un programma aggiornato letto dalla regina in un imminente Queen's Speech bis. Per avviare quindi l'iter sulla ratifica del controverso accordo di separazione da lui già raggiunto con Bruxelles prima della pausa di Natale e mettere finalmente nel mirino l'attuazione formale della Brexit alla nuova scadenza fissata per il 31 gennaio. Il tutto sullo sfondo di un Paese che si accinge ad affrontare la tappa decisiva di uno snodo "storico", secondo i commentatori.
Non senza un impatto epocale per il resto dell'Europa, Italia compresa. La consapevolezza del momento era emersa fin dal mattino, con un'affluenza alle urne significativa su e giù per le quattro nazioni del Regno: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Johnson e Corbyn erano stati tra i primi a depositare le schede, entrambi a Londra. Il leader laburista accompagnato dalla moglie Laura Alvarez, figlia di dissidenti cileni fuggiti nel Regno ai tempi di Pinochet. Il primo ministro conservatore, uno dei più eccentrici inquilini di Downing Street degli ultimi decenni, con il cagnolino Dilyn al guinzaglio, al pari di tanti altri sudditi di Sua Maestà.
Poi era toccato ai capi dei partiti minori, dall'indipendentista scozzese Nicola Sturgeon, il cui Snp ha infine ribadito alla grande il ruolo di prima forza della Scozia con 55 seggi previsti, alla liberaldemocratica Jo Swinson, anti Brexit radicale, che invece appare destinata a fermarsi alla deludente soglia di 13. Mentre file di semplici elettori si formavano con britannico ordine in diversi seggi.
Il segnale di una partecipazione sostenuta - a dispetto della giornata fredda e piovosa - fra i circa 46 milioni di aventi diritto, alimentata dai nuovi elettori, giovani e giovanissimi, in larga parte attratti dalla svolta a sinistra corbyniana in un Paese segnato da disuguaglianze, ma assai di più - evidentemente - dalla maggioranza silenziosa più anziana, orientata verso il verbo Tory e di Boris Johnson. Suggello di un voto fuori stagione (a dicembre l'ultima volta era stato nel lontano 1923) destinato a fare la storia.
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