(di Marzia Apice)
SILVIA RESTA, IL GIORNALISTA
PARTIGIANO. CONVERSAZIONI SUL GIORNALISMO CON MASSIMO RENDINA
(All Around, pp.160, 15 euro)
"Sentivo un dovere dentro di me, quello di combattere. Era
come un'energia che mi attraversava. Così da un giorno all'altro
sono diventato partigiano". E' probabilmente l'assoluta
incapacità di restare indifferente al mondo attorno a lui il
principale tratto distintivo del carattere di Massimo Rendina,
partigiano e giornalista, nato a Venezia nel 1920 e scomparso a
Roma nel 2015, per tutta la vita impegnato a lottare per la
libertà. Di lui Silvia Resta offre un rigoroso e appassionato
ritratto ne "Il giornalista partigiano", edito da All Around,
libro che raccoglie alcune conversazioni intercorse tra la
giornalista e Rendina nel 2011.
Coraggioso, indipendente e capace di raccontare i fatti con
lucidità, rimanendo inflessibile di fronte al potere;
disubbidiente alla politica e, per questo, punito: era questo
"Max il giornalista" (il suo nome negli anni della Resistenza)
che da partigiano, ogni volta che dopo un'azione con i compagni
riusciva a liberare una città o un paese, in tempi record
pensava a mettere in piedi un giornale perché una nuova comunità
"aveva bisogno di un giornalismo finalmente indipendente".
Proprio nell'esperienza partigiana si rinsaldano i principi su
cui ha basato la sua professione, che rimandano a
un'informazione trasparente e partecipata dai cittadini, quella
che sarebbe dovuta nascere con la Liberazione - vero bene
comune, un "pane" per la democrazia, caratterizzata da un
linguaggio più semplice e aperto - e che forse non si è mai
realizzata del tutto. "Il problema dei tempi attuali è proprio
la mancanza di partecipazione dei cittadini alla Cosa pubblica,
che fa il paio con la mancanza di una libera informazione",
diceva riferendosi al nostro presente Rendina, che dopo la lotta
partigiana scelse di proseguire sulla strada del giornalismo,
prima sulla carta stampata e poi in Rai, in radio all'inizio e
successivamente in tv: qui diresse nel '56 il primo telegiornale
e fu allontanato perché accusato di essere comunista.
Nelle conversazioni riportate da Resta, Rendina racconta
molto più di se stesso: dalle sue parole, così personali,
l'orizzonte si allarga per arrivare a narrare un Paese intero e
la sua mentalità, i passi falsi della sua classe dirigente, la
strada percorsa dai mezzi di informazione e dai suoi
protagonisti, alcuni a volte legati ai giochi opachi del potere.
Ci sono i fatti, che Rendina racconta combattendo i vuoti di
memoria, ma ci sono anche i nomi, tanti, di ieri e di oggi. E in
un lampo, pagina dopo pagina, ecco che si arriva ai nostri
tempi, così complessi e nebulosi. Tempi in cui la politica si è
indebolita e con essa anche il giornalismo, divenuto meno
credibile agli occhi dell'opinione pubblica. "Nei nostri
dialoghi (ma era lui che parlava, io mi limitavo a sollecitarlo,
a fare brevi domande) abbiamo attraversato quasi un secolo di
storia: dal fascismo alla guerra partigiana alla sua esperienza
in Rai (lui, primo direttore del telegiornale, da cui fu
cacciato con l'accusa di essere "comunista"), dalla tivvù bianco
e nero al colore, dalla Democrazia cristiana a tangentopoli al
ventennio del berlusconismo, con un filo che cuciva, che
attraversava tutto: la funzione del giornalismo, ingrediente
della democrazia, mestiere bellissimo che - diceva Rendina - si
può fare solo nel pubblico interesse dei cittadini", scrive
Silvia Resta.
Alla giornalista il merito di aver ordinato, con rigore e
passione, le memorie di un uomo (bellissimo anche il materiale
fotografico alla fine del libro) che è stato un testimone del
suo tempo lucido e partecipe, il cui contributo alla storia
della Liberazione e a quella del giornalismo italiano non può e
non deve essere dimenticato.
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