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Futuro della moda e moda del futuro: tra riciclo, live shopping e metaverso

Redazione Ansa

Da FUTURAnetwork.eu

 

Secondo una ricerca di McKinsey, nel 2018 l’industria della moda è stata responsabile dell’emissione di circa 2,1 miliardi di tonnellate di gas serra, corrispondenti a circa il 4% del totale globale. Per dare un’idea, il settore ha emesso in quell’anno la stessa quantità di gas serra delle intere economie di Francia, Germania e Regno Unito messe insieme. La situazione, in questi ultimi anni, non è migliorata di molto. Per imboccare un percorso sostenibile (e contenere le emissioni, tra i fattori responsabili dell’innalzamento della temperatura oltre 1,5 gradi), secondo McKinsey il settore dovrebbe ridurre le emissioni di gas serra a 1,1 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030, il che vorrebbe dire un miliardo all’incirca in meno rispetto ai livelli recenti: un impegno non indifferente.

A livello europeo la situazione non è meno allarmante: sempre McKinsey ha calcolato che nel 2022 sono stati prodotti quindici chilogrammi di rifiuti tessili pro capite annui. La principale fonte dei rifiuti tessili, secondo la società di consulenza, sono i vestiti e i tessuti casalinghi scartati dai consumatori, che rappresentano circa l'85% dei rifiuti totali: molti di questi hanno un processo di smaltimento problematico, e per questa ragione le destinazioni finali sono principalmente gli inceneritori o le discariche (dentro e fuori dall’Europa). Tra queste destinazioni si annovera, ad esempio, la discarica nel deserto di Atacama, in Cile, dove si sono formate negli anni autentiche “dune” composte dai vestiti invenduti provenienti da tutto il mondo. "Aljazeera" ha stimato fino a 59mila le tonnellate di indumenti che, invenduti negli Stati Uniti o in Europa, finiscono ogni anno al porto di Iquique, nel nord del Cile. Questi sono destinati alla rivendita in America Latina, ma in realtà solo 20mila tonnellate si fanno strada nel continente.

Uno dei principali scogli al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità del settore riguarda quindi l’incapacità di arginare l’entità dei volumi di produzione e di consumo, un valore in ascesa anche grazie al miglioramento dello stile di vita dei Paesi in via di sviluppo. “Se non verranno intraprese serie azioni di abbattimento, l’aumento dei volumi di produzione e commercio potrebbe spingere le emissioni a circa 2,7 miliardi di tonnellate all'anno entro il 2030”, si legge nel Rapporto. Tuttavia, se l'industria sarà capace di abbracciare ingenti iniziative di decarbonizzazione potrà limitare le emissioni a 2,1 miliardi di tonnellate annue entro il 2030 – un dato equivalente più o meno alle emissioni odierne. Secondo McKinsey, dunque, servono azioni più consistenti: circa il 60% della riduzione delle emissioni del settore potrebbe essere ottenuto tramite l’efficientamento energetico e l’utilizzo di energie rinnovabili nei processi di produzione. Un altro 18% delle emissioni potrebbe essere risparmiato attraverso miglioramenti operativi e un ulteriore 21% tramite cambiamenti nel comportamento dei consumatori. “Insieme, questi sforzi potrebbero rimodellare il panorama della moda”.

La buona notizia per l'industria è che molte delle azioni necessarie per un abbattimento accelerato delle emissioni possono essere realizzate a costi modesti: quasi il 90% di queste misure potrebbe costare meno di 50 dollari per tonnellata di emissioni di gas serra ridotte. Inoltre, circa il 55% delle misure porterebbe a risparmi netti sui costi di produzione. Le restanti azioni richiederebbero invece incentivi per modellare la domanda dei consumatori o normative per promuovere azioni di abbattimento.

Oltre alla catena di produzione esiste, però, il problema dello smaltimento. A questo proposito McKinsey identifica diversi sistemi per trasformare i rifiuti “in valore”: tra questi, la riduzione della sovrapproduzione e del consumo eccessivo, l'estensione della durata del prodotto e la progettazione di materiali adatti a una maggiore circolarità. Uno degli strumenti più sostenibili e scalabili (capaci di aumentare o diminuire di scala a seconda delle necessità) è il riciclaggio fiber-to-fiber (da fibra a fibra), il cui obiettivo è la trasformazione di rifiuti tessili in nuove fibre, da riutilizzare per creare nuovi vestiti e altri prodotti. Alcune tecnologie del settore (come il riciclaggio del puro cotone) sono già consolidate, mentre altre (come il riciclaggio del poliestere) sono in via di sviluppo. Una volta introdotte queste tecnologie di riciclo, le stime di McKinsey indicano che “il 70% dei rifiuti tessili potrebbe essere riciclato da fibra a fibra”, mentre il restante 30% richiederebbe forme di riciclaggio a circuito aperto (dove i beni ottenuti hanno un valore minore rispetto ai materiali di partenza) oppure attraverso il riciclaggio termochimico. A oggi, però, meno dell’1% dei rifiuti tessili viene riciclato da fibra a fibra, a causa di una serie di ostacoli strutturali, tra cui il livello di difficoltà della raccolta, smistamento e pretrattamento, che limita la quantità di rifiuti tessili messi a disposizione per il riciclaggio da fibra a fibra (30-35% rispetto ai rifiuti tessili prodotti). Inoltre, il riciclaggio fibra a fibra richiede il rispetto di requisiti rigorosi sulla composizione e purezza delle fibre, composizione che chiama fuori altri materiali. “Questi colli di bottiglia impediscono la diffusione dell'economia tessile circolare”, si legge nello studio. “La nostra analisi indica che superando queste barriere, il riciclaggio da fibra a fibra potrebbe raggiungere dal 18 al 26% dei rifiuti tessili lordi nel 2030”.

Il problema, dunque, è ancora lontano da una soluzione: “Siamo una delle industrie più inquinanti a livello globale, ma siamo un’industria non essenziale. Rubiamo energia, acqua, terra, risorse preziose per garantire la vita sul pianeta, per fare magliette, jeans e pantaloni che, tolta la funzione psicologica, tolta la funzione culturale, nessuno necessita in queste quantità”, ha commentato Matteo Ward, cofondatore e Ceo di Wråd, nell’evento del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2022 dedicato all’economia circolare. Un tema, quello del rapporto tra moda e sostenibilità, ripreso anche da Ottavia Ortolani, responsabile progetti di comunicazione e advocacy di ASviS, in un intervento su "Hub Style": “L’industria della moda è trainante per l’economia del nostro Paese oltre a essere considerata un’eccellenza a livello mondiale. Vestirsi bene è una peculiarità italiana e tutti acquistiamo vestiti. Dobbiamo impegnarci nel trovare soluzioni condivise per moderare gli effetti di una delle industrie più inquinanti al mondo. L’impatto ambientale, sociale ed economico può essere rendicontato”.

Per raggiungere alcuni di questi traguardi McKinsey stima che entro la fine di questa decade sarebbero necessari investimenti compresi tra i sei e i sette miliardi di euro, investimenti che potrebbero portare però numerosi guadagni: secondo la società di consulenza, infatti, entro il 2030 il settore del riciclo tessile potrebbe generare profitti tra gli 1,5 e i 2,2 miliardi di euro. Oltre a questi introiti economici, si conterebbero numerosi vantaggi ambientali e sociali: “Nel nostro scenario di base, potrebbero essere creati circa 15mila nuovi posti di lavoro, e le emissioni di CO2 potrebbero essere ridotte di circa quattro milioni di tonnellate, equivalenti alle emissioni cumulative di un Paese delle dimensioni dell'Islanda”.

La moda del futuro

Sostenibilità, però, non vuol dire “solo” promuovere azioni per contenere le emissioni, ma anche sfruttare le possibilità che l’innovazione fornisce per trasformare (e migliorare) l’industria stessa: ed è qui che entra in gioco la rivoluzione digitale.

Ispo, azienda impegnata da anni nella produzione di abbigliamenti sportivi, ha stilato a questo proposito una lista delle tendenze future della moda (tra cui rientrano anche sostenibilità e digitalizzazione), utile a comprendere i campi di interesse e di evoluzione del settore. Lo studio mette al primo posto l’attenzione alla salute e al benessere. La salute, infatti, non è mai stata così centrale nel settore come in questi ultimi anni (anche a causa del Covid-19): ad esempio, alcune aziende hanno sperimentato nanocapsule integrate ai vestiti per proteggere la pelle, mentre altre (come Polygiene e HeiQ) hanno sviluppato finiture speciali per tessuti che uccidono virus e batteri, fornendo una protezione attiva e continua al proprio corpo.

Un’altra grande battaglia del settore, come abbiamo già sottolineato, riguarda la riduzione degli sprechi, aspetto particolarmente critico per il settore della "fast fashion" – con cui si indica la produzione e il consumo di abiti di bassa qualità, realizzati a prezzi molto ridotti e di breve durata. Per questa ragione, invece di produrre o comprare nuovi prodotti, sempre più rivenditori, marchi e consumatori si stanno rivolgendo a modelli di consumo alternativi. Il mercato dell'usato è in crescita da anni e, secondo Ispo, raddoppierà fino a un totale di 34 miliardi di euro entro il 2025. Sempre più marchi – da The North Face a Vaude, da H&M a Zalando – stanno investendo in nuovi modelli di rivendita e offrono beni di seconda mano, insieme alle loro collezioni regolari. Lo stesso vale per il noleggio dei capi di abbigliamento, settore dove molti rivenditori e brand hanno già lanciato i loro servizi. Ispo registra anche l’esigenza, da parte dei consumatori, di acquistare prodotti che non vengano soltanto da materiali riciclati, ma che possano essere riciclati a loro volta. Da questa necessità nascono, ad esempio, le scarpe Cyclon, calzature in abbonamento che vengono restituite mensilmente all’azienda produttrice (la On), in cambio di un paio di scarpe utilizzate da altri abbonati e riciclate. L’obiettivo? Entrare in un ciclo virtuoso e circolare in cui non si avrà più bisogno di comprare calzature nuove di zecca.

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di Flavio Natale

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