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Cosa serve per essere felici? Gli ingredienti offerti da un mondo sostenibile

Redazione Ansa

di Flavia Belladonna

Tutti la vogliamo, eppure non sappiamo definirla in modo univoco. Sto parlando della felicità. Un concetto complesso approfondito per secoli da filosofi, psicologi, studiosi, ma che continua ad essere al centro della nostra attenzione. Così sentito da aver spinto l’Onu 10 anni fa a dedicare al tema una Giornata internazionale, il 20 marzo, e che ha portato migliaia di persone a riunirsi a Como dal 24 al 26 marzo per un Summit internazionale sulla felicità, con esperte ed esperti del tema provenienti da più di 40 Paesi.           

Essere felici e soddisfatti della propria vita è un obiettivo per le persone, ma dovrebbe esserlo anche per l’azione politica. Solo che rendicontare su un’emozione intima e sfuggente è ben più complicato rispetto a descrivere la crescita economica di un Paese attraverso il Pil. Gli sforzi per classificare il livello di felicità di un Paese e per misurare il benessere collettivo ci sono da tempo però, e non possono essere ignorati.

Il “World Happiness Report 2023”, pubblicazione annuale del Sustainable development solutions network, analizza il livello di felicità di 137 Paesi del mondo, principalmente sulla base del sondaggio Gallup che rileva la risposta alla domanda “Quanto sei soddisfatto della tua vita in una scala da zero a dieci?”. Il Rapporto include anche altri parametri, come ricchezza, supporto sociale, aspettativa di vita in salute, libertà, generosità e corruzione. In cima alla classifica, per il sesto anno consecutivo, troviamo la Finlandia, seguita dalla Danimarca e dall’Islanda; Germania 16esima, Francia 21esima, Spagna 32esima, mentre l’Italia è passata dalla 31esima alla 33esima posizione; Libano e Afghanistan agli ultimi posti. Ma come può il nostro Paese scalare questa classifica e contribuire attivamente all’accesso alla felicità?

Cerchiamo innanzitutto di capire da che cosa dipende la felicità e come possiamo raggiungerla. Secondo il filosofo José Ortega y Gasset, possiamo essere felici quando la “vita proiettata” e la “vita effettiva” coincidono, cioè quando c’è una corrispondenza tra ciò che desideriamo essere e ciò che siamo in realtà. Per riuscire a generare questa sovrapposizione entrano in gioco due diverse dimensioni.

La prima è quella soggettiva. Mia figlia di sei anni ha ricevuto un libro in cui una bambina chiede ai nonni, ai genitori, ai vicini, persino al cane, che cosa sia la felicità. È tenere stretto a sé un nipote, coltivare il proprio giardino di fiori, passare una bella serata con i propri amici. Il messaggio è chiaramente che non esiste una sola felicità, ma ognuno deve trovare la propria. Il problema è che, nel cercare quella corrispondenza tra vita proiettata e vita effettiva, spesso non abbiamo chiaro chi vogliamo essere o che cosa vogliamo, con tutte le difficoltà di “sentirsi felici” che ne derivano. Per questo il primo passo è acquisire una consapevolezza su noi stessi, per poi adottare un atteggiamento flessibile di fronte a ciò che la vita ci offre, anche per cogliere nuove opportunità. Qualcuno potrebbe avere le idee inizialmente chiare ma doverle modificare sulla base degli eventi, qualcun altro potrebbe trovare la propria strada passo passo, ognuno a modo suo.

Secondo Karen Guggenheim, fondatrice del Summit sulla felicità, bisogna anche “imparare ad essere felici” e per farlo occorre “riprogrammare il nostro cervello”: “sebbene non sia possibile esercitare un controllo su ciò che ci capita nella vita, la scelta su come reagire a quegli eventi dipende da noi”. Spesso, in effetti, siamo noi stessi che limitiamo la possibilità che la felicità si verifichi. Sviluppare la propria resilienza per sapersi reinventare, dunque, ma anche imparare a guardare dalla giusta prospettiva. Tempo fa, quando le mie figlie tornavano da scuola, alla domanda “Che cosa hai fatto oggi?” mi rispondevano il più delle volte raccontandomi ciò che non avevano fatto, o dell’assenza di una loro amichetta; un giorno ho letto su una rivista educativa il consiglio di una psicologa infantile che invitava a porre la domanda “che cosa hai fatto "di bello" oggi a scuola?”. Ho sperimentato e, onestamente, sono rimasta stupita di come un accorgimento così semplice abbia radicalmente cambiato le loro risposte, portandole a guardare molto più al bicchiere mezzo pieno che a quello mezzo vuoto. Chiedersi le cose in modi diversi, può aiutarci a guardare la vita da prospettive diverse, comunque tutte importanti: domandarsi che cosa non è andato può aiutare a evitare i rischi futuri (a patto che sia qualcosa su cui abbiamo un controllo), guardare ciò che è andato bene può aiutare invece a sviluppare sentimenti positivi.

La seconda dimensione che entra in gioco nella percezione sulla felicità è quella familiare e culturale, che riguarda il contesto in cui cresciamo e viviamo. Nel recente sondaggio sulla felicità condotto da Ipsos su 32 Paesi, inclusa l’Italia, su 30 fonti di felicità prese in esame (vedi immagine sotto) alcune sono risultate particolarmente importanti solo in uno o pochi Paesi. Ad esempio, la situazione finanziaria personale in Francia, il tempo libero in Giappone e Corea del Sud, essere riconosciuta come una persona di successo in India e Turchia, il benessere spirituale o religioso in Malesia e Arabia Saudita. Non a caso uno dei primi importanti tentativi di andare “Oltre il Pil”, che risale agli anni Settanta quando il re del Bhutan coniò il concetto di “Felicità interna lorda” e che portò negli anni successivi alla nascita di un indice di progresso economico e morale, era basato su misurazioni sì rigorose, ma sostanzialmente valide in una cultura di tipo buddista, perché valutava ad esempio il tempo dedicato giornalmente alla meditazione.

Così il sondaggio Ipsos ha cercato di individuare anche i primi cinque fattori di felicità comuni, che sono risultati essere: sentire che la propria vita ha un significato, sentirsi in controllo della stessa, salute mentale e benessere, vita sociale e condizioni di vita. Le aree di vita di cui gli intervistati italiani sono risultati più soddisfatti riguardavano la sfera delle relazioni (figli, partner, amici, sentirsi amati) e il sentirsi liberi di fare e dire ciò che si vuole; in fondo alla classifica per soddisfazione, invece, la situazione politica, economica e sociale del Paese.

Far parte di un determinato ambiente culturale e familiare influenza la tipologia e il peso che giocano i diversi fattori di felicità, e quindi anche le nostre aspettative e l’immagine che ci costruiamo di “vita proiettata”. Ma il contesto in cui viviamo incide soprattutto su molte condizioni alla base dell’accesso alla felicità, come le condizioni di vita e l’accesso ai diritti fondamentali. È su questo punto che le scelte dei governi possono entrare in gioco nella felicità delle persone. Proviamo a riflettere meglio come.

Economia. È condivisa l’idea che i soldi non facciano la felicità, ma non possiamo nemmeno ignorare come contribuiscano al fine. Vivere in un Paese prospero vuol dire avere maggiori possibilità di accesso a condizioni di vita adeguate, servizi efficienti e un lavoro dignitoso. Una situazione economica precaria a livello famigliare determina preoccupazioni e rinunce, con conseguenze ad esempio sulla salute (mentale e fisica, con un diverso accesso alle cure) e sull’istruzione (come l’abbandono scolastico precoce per trovare lavoro).

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