di Donato Speroni
È una storia che comincia nel 1864, quando lo scozzese David Livingstone, medico ed esploratore, entrò per la prima volta in quello che è oggi il Malawi. In ricordo di quella missione, nel 2004 è stata lanciata la Scotland – Malawi partnership. Non si tratta di un gemellaggio formale come tanti. Racconta Francesca Santolini su Specchio, l’inserto della "Stampa", che alcune regioni del Malawi sono state colpite da siccità, alluvioni, cicloni tropicali: un milione di persone coinvolte in questi eventi estremi, che hanno provocato un calo dei raccolti del 20% e 200mila sfollati interni. "Ed è qui che comincia la storia di riparazione, ripresa e resilienza. (...) La Scozia ha deciso di farsi carico del primo risarcimento danni da disastro climatico nella storia, tecnicamente chiamato "loss and damage". Con questa espressione si intende il trasferimento di risorse finanziarie dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, per riparare i danni che si sono già verificati a causa della crisi climatica o che inevitabilmente si verificheranno in futuro. Il governo scozzese, guidato dal partito progressista Scottish National Party, in coalizione con il Green Party, ha destinato fondi per un totale di 7 milioni di sterline a una serie di progetti volti ad aumentare la resilienza del Paese africano."
L’episodio è doppiamente significativo. In primo luogo, perché per la prima volta si dà sostanza al fondo "Loss and damage", teorizzato alla Cop 27 di Sharm lo scorso anno ma non ancora operativo. In pratica, si riconosce il diritto dei Paesi più poveri e più danneggiati dal cambiamento climatico a ottenere un risarcimento dai Paesi che hanno maggiormente contribuito alle emissioni di gas climalteranti. La seconda ragione di interesse è che a muoversi non è uno Stato (il Regno unito) ma un governo regionale. Se questi atti di solidarietà dai territori si moltiplicassero con rapporti stabili tra regioni, certamente le politiche di mitigazione e adattamento dei Paesi in via di sviluppo ne trarrebbero un gran beneficio, con effetti sul futuro del clima e anche con l’attenuazione dei movimenti migratori.
Questa settimana, il clima è stato al centro di molte riflessioni, perché sabato 22 si è celebrata la Giornata della Terra. Anche in Italia il tema ha avuto grande attenzione. Se si paragona lo spazio dedicato oggi alle questioni ambientali rispetto a quello, per esempio, di cinque anni fa, si ha la sensazione che il mondo si stia facendo davvero carico dei problemi del riscaldamento, dell’inquinamento, della biodiversità.
Purtroppo non è così e gran parte delle analisi lo confermano. Tra tutte quelle pubblicate in questi giorni, prendiamo quella di "Johan Rockström", uno dei più accreditati studiosi dell’ambiente, sulla "Repubblica".
"Rispetto ai primi anni del Novecento, il nostro Pianeta è più caldo di 1,2°C. La scienza ha dimostrato che la Terra ha superato sei dei nove limiti che la mantengono stabile e che molti irreversibili punti di non ritorno sono vicini. Gli Accordi di Parigi sul clima prevedono che le temperature restino in una fascia di +1,5-2°C, ma siamo in una zona a rischio per l'irreversibile cedimento della Groenlandia e di importanti regioni antartiche e ciò condannerà le future generazioni a subire un aumento del livello degli oceani anche di dieci metri."
Concetti e allarmi che già conosciamo, ma che è bene ripetere. Possiamo evitare il disastro? Per il direttore della "Repubblica", Maurizio Molinari,
"la risposta che arriva da questa giornata della Terra è "Investire nel Pianeta" ovvero scegliere, ognuno a modo proprio, sulla base dei propri valori e tradizioni, come sostenere una vasta gamma di campagne e iniziative per la difesa dell'ambiente che si mantengono solo grazie ad una moltitudine di scelte volontarie. Dalla difesa delle foreste all'assalto della speculazione, dagli argini contro le miniere che spuntano negli ultimi paradisi del Pianeta all'uso di sostanze non inquinanti, dalla scelta dei motori elettrici alla volontà di riciclare quanto possibile, fino alla decisione di limitare gli eccessi personali e collettivi dello sfruttamento dell'energia."
Anche Rockstrom titola significativamente “Siamo ancora in tempo per cambiare” e cita le cinque ricette di “Earth4All”, il volume che Club di Roma e ASviS hanno recentemente presentato al Cnel: accelerare l’elettrificazione da fonti rinnovabili, trasformare il sistema alimentare globale, favorire "l’empowerment" femminile anche per raggiungere un equilibrio demografico, affrontare le giustizie sanitarie e di reddito, risolvere la questione della povertà nei Paesi più svantaggiati con una mobilitazione di Banca mondiale e Fondo monetario.
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E Sara Gandolfi, sul "Corriere della Sera", presenta “Dieci motivi per essere ottimisti”, dal contenimento delle emissioni nei Paesi più sviluppati alle ricerche di nuove tecnologie che “proseguono a ritmo incalzante”. Ha ragione, perché è necessario far leva sui punti di forza, ma molte delle soluzioni che elenca, dallo stop alla deforestazione alla salvaguardia delle specie biologiche a rischio sono tendenze, talvolta intese internazionali da implementare, talaltra poco più di "wishful thinking".
È vero però che è in atto un grande movimento mondiale che coinvolge comunità locali, imprese, comportamenti individuali. Basterà? Nel suo libro “La grande catastrofe”, appena uscito in Italia per Feltrinelli, l’economista Nouriel Roubini ci dice che “debito, demografia, crisi climatica, stagflazione e gli altri sei maxipericoli sono risolvibili solo tutti insieme”. Nell’intervista rilasciata a Edoardo Vigna su “Pianeta 2030” del "Corriere della Sera" mette l’accento sulla necessità di “unire i puntini con un approccio olistico” e alla domanda “Quali conflitti ostacolano una soluzione?” risponde:
"Intanto quello tra Paesi ricchi e Paesi emergenti. Esemplare il caso della Cina che dice: ci chiedete di limitare le emissioni e quindi di non crescere ma è l’Occidente ad aver creato questa situazione in 200 anni. Continueremo a emettere CO2 fino a quando avremo un certo livello di reddito. Metà degli Usa, poi, non crede nella crisi. Un repubblicano potrebbe essere di nuovo presidente nel 2024, e allora... E c’è il conflitto intergenerazionale: i vecchi tra 80 anni non ci saranno. Loro però votano, i giovani no, nonostante siano i più interessati e favorevoli... Invece diventano individualmente vegani. Giusto: un quarto delle emissioni sono da animali da allevamento. E tutti dovrebbero isolare le case, mettere un pannello solare, comprare borse riutilizzabili… Ma quanti lo stanno facendo? Anch’io ho cercato di essere vegano. Tre mesi…"
Però anche Roubini non è del tutto pessimista, perché dice,
"Guardiamo alla tecnologia. Può arrivare una rivoluzione dalla fusione nucleare. Mi dicono che la cattura e il sequestro del carbonio possono diventare efficienti. Anche l’idrogeno verde. Ci sono modi diversi per arrivare all’emissione zero: forse non tutti funzionano, ma forse alcuni più di altri."
Qualunque sia la soluzione (anzi, le soluzioni, perché non c’è una panacea meravigliosa) deve essere globale. Le tecnologie non bastano se non sono applicate in tutto il mondo: già oggi lo vediamo, con le soluzioni tecniche già disponibili ma che tardano a essere impiegate per ragioni economiche e finanziarie. La situazione non potrà cambiare se non si affronteranno gli spaventosi problemi sociali dei Paesi in via di sviluppo, a cominciare, come dice lo stesso Roubini, dal problema del debito. I cambiamenti climatici avranno comunque un pesante impatto che deve essere affrontato globalmente.
Nel suo ultimo policy brief prodotto in preparazione della Conferenza sul futuro, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres mette l’accento sulla partecipazione politica dei giovani, solitamente confinati in arene consultive, ma con scarso peso nei processi decisionali. Dare potere ai giovani significa dare più spazio al futuro. Un processo che forse è già in moto, ma che è ancora troppo lento.
In copertina: Statua di David Livingstone in Zimbabwe.
Fonte: dietmarrauscher, da 123rf.com
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