Se ne vanno in aereo, non su navi ottocentesche; con un trolley leggero, niente valigie di cartone legate con lo spago. Ma la speranza di trovare una vita migliore è la stessa dei loro bisnonni che si definivano emigrati mentre loro preferiscono expat.
Sono i giovani (ma non solo) che lasciano l’Italia, un Paese da cui si sentono respinti e delusi: sono circa cinque milioni ma forse anche di più, perché questo è il numero ufficiale di chi si è registrato all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) e non comprende tutti coloro che vivono in una sorta di limbo senza riuscire a decidersi se restare qui o lasciare definitivamente il suolo natìo.
Il 44% sono giovani tra i 18 e i 34 anni, stanchi di non trovare un’occupazione soddisfacente ed equamente retribuita (i lavoratori italiani guadagnano in media 3.700 euro in meno dei colleghi europei), frustrati per non poter programmare una vita autonoma al di fuori delle mura domestiche di mamma e papà ma anche per la difficoltà di sentirsi protagonisti della vita sociale e politica in un Paese sempre più anziano.
“L’Italia che cresce fuori dell’Italia”, secondo una definizione del Rapporto Italiani nel mondo 2023 della Fondazione Migrantes, che ne traccia un identikit abbastanza sorprendente anche perché questo fenomeno che sta diventando sempre più di massa è stato perlopiù ignorato dai mezzi di comunicazione.
“Una nuova importante questione giovanile italiana (ma anche europea)”, è l’allarme che la Fondazione prova a lanciare, “che tocca diversi piani: da quello identitario, a quello esistenziale, da quello occupazionale a quello professionale, fino al protagonismo e alla partecipazione sociale. Una questione per la quale tanto si parla, ma per la quale ancora troppo poco si fa. E i giovani, i giovani adulti e, sempre di più, anche i giovanissimi bruciano i tempi e, stanchi di attendere, trovano soluzioni e risposte in altri luoghi lontano da casa”.
All’interno di questa ondata di giovani e meno giovani che abbandonano il Paese si situa anche una nuova “questione femminile”: tra il 2006 e il 2023 le donne sono praticamente raddoppiate e costituiscono il 48,2% degli attuali espatriati. E diversamente da quello che qualcuno potrebbe immaginare non emigrano per ricongiungersi a mariti e compagni: ad attrarle è la prospettiva di una vita più gratificante, di un lavoro che ne riconosca appieno il merito e le competenze, di maggiori possibilità di carriera.
“Malgrado le iniziative politiche italiane”, si legge ancora nel documento diffuso da Migrantes, “il rapporto dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), pubblicato a dicembre 2022, evidenzia che, a fronte dell’incremento occupazionale riscontrato, il gender gap non migliora. Tra i dati riferiti si cita il mero 6,6% delle donne che trovano lavoro dopo il parto e, con riferimento alla cosiddetta “fuga di cervelli”, si riscontra che una delle sue cause più rilevanti è il “mancato sostegno e valorizzazione dell’occupazione femminile” che, tra l’altro, rappresenta una delle cause principali del calo delle nascite, di cui, proprio nel 2022, è stato toccato il minimo storico.”
E verso dove si dirigono i “cervelli in fuga”?
La destinazione preferita resta l’Europa, sia per la vicinanza geografica che per la facilitazione nel disbrigo delle pratiche amministrative. Nel caso specifico delle donne un altro motivo di questa preferenza è il fatto che la maggior parte di loro parla correntemente una/due lingue europee.
E a tal proposito è bene ricordare che gli expat nel loro complesso hanno un titolo di studio in prevalenza medio-alto (circa il 58% possiede almeno un diploma).
Una perdita di talenti del tutto evidente per il nostro Paese, cui negli anni si è cercato di porre rimedio con agevolazioni principalmente di tipo fiscale per coloro che volessero rientrare in patria.
In effetti, nel decennio 2012-2021, i rimpatri sono più che raddoppiati e la tendenza è in aumento. Tuttavia, secondo il rapporto della Fondazione Migrantes, “il volume dei connazionali che rientrano in patria non è sufficiente a compensare la perdita di popolazione dovuta agli espatri che, durante lo stesso periodo e fino all’anno della pandemia, sono aumentati in misura considerevole, facendo registrare saldi migratori (differenza tra entrate e uscite) sempre negativi”.
In particolare a essere più restia a tornare è la fascia dei 30-40 anni, caratterizzata dalla presenza di famiglie con bambini e per la quale quindi pesano maggiormente sia le difficoltà di spostamento, sia la scarsa attrattività del welfare familiare in Italia. Non è un caso, infatti, se tra le regioni preferite per i rientri spicca in positivo il Trentino Alto-Adige, dove i servizi per l’infanzia e di sostegno alle famiglie sono migliori e più diffusi rispetto al resto del Paese.
Il governo, con la legge di Bilancio in esame al Parlamento, ha approvato per il 2024 una serie di misure che puntano a sostenere le famiglie con due o più figli: il bonus nido per esempio viene aumentato per chi ha già un figlio con età inferiore ai dieci anni, le madri lavoratrici a tempo indeterminato con almeno due figli vengono esonerate per un anno dal versamento dei contributi a loro carico, mentre le imprese che assumeranno donne con almeno due figli minori avranno una deduzione fiscale.
Misure che andrebbero ad aggiungersi alle già esistenti maggiorazioni dell’assegno unico universale per le famiglie più numerose, tra cui quella del 50% per i bambini fino ai tre anni per le famiglie con almeno tre figli.
Ma saranno sufficienti a convincere le giovani coppie che hanno sperimentato in altri Paesi dell’Ue welfare famigliari ben più robusti del nostro?
Anche perché, come si evince da un’analisi pubblicata sul Sole24ore, le difficoltà sono maggiori per le coppie che danno alla luce il primo figlio: se la spesa mensile cresce del 5,3% con il secondo, l’aumento per il primo figlio è del 15%.
Grande sconcerto ha anche provocato la misura fiscale approvata dal governo lo scorso 16 ottobre che diminuisce dal 70% al 50% l’agevolazione per gli impatriati “con elevata specializzazione e qualificazione” fino a 600mila euro di reddito all’anno, introducendo anche requisiti più stringenti per accedere come l’aumento a tre anni del periodo di residenza all’estero e a cinque anni di permanenza in Italia dopo il rientro.
“Gli incentivi per il rientro del capitale umano sono un buon investimento (un costo oggi con dei benefici domani) se disegnati per attrarre e trattenere espatriati e stranieri che altrimenti non si sarebbero trasferiti in Italia”, scrive la voce.info che compie un’analisi del provvedimento da un punto di vista strettamente economico. “Ma rimangono pur sempre un palliativo, poiché non affrontano le cause strutturali che spingono così tanti a lasciare il Paese.”
di Annamaria Vicini
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