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Dobbiamo accelerare la transizione se vogliamo garantire più competitività alle imprese

Redazione Ansa

Parlare di “transizione”, in sostanza, significa passare da qualcosa a qualcos’altro e, auspicabilmente, avere un’idea chiara della direzione. Indicare le azioni e i passi da seguire è (o dovrebbe essere) un impegno essenziale. Per questo è una buona notizia che la transizione energetica sia stata tra i temi principali del discorso programmatico con cui Ursula von der Leyen è stata riconfermata alla guida della Commissione europea:

Un'Europa più forte che garantisca equità sociale e sostenga le persone. E che rispetti gli obiettivi del Green Deal europeo con pragmatismo, neutralità tecnologica e innovazione.

 Ed è proprio qui che von der Leyen chiarisce la sua scelta, perché non fa marcia indietro su una delle massime priorità del suo precedente mandato, il Green Deal, rilanciando con la promessa di un “un nuovo Clean Industrial Deal. Canalizzerà gli investimenti in infrastrutture e industria, in particolare per i settori ad alta intensità energetica”.

Sugli aspetti industriali torneremo tra poco. Vogliamo ricordare però che il concetto di “transizione giusta” è entrato a far parte del dibattito pubblico durante la Conferenza sui cambiamenti climatici del 2015: l’accordo di Parigi, che ha guidato l’agenda sulla decarbonizzazione degli ultimi anni, afferma che i governi devono tenere conto delle esigenze della forza lavoro e sottolinea l’importanza di una transizione giusta per farlo. Parole chiare e inequivocabili sulla necessità di accelerare, anziché fare passi indietro, sono arrivate poche ore fa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in visita in Brasile. C’è, ha detto il capo della Stato,

l’urgenza di una transizione verde che sia pragmatica, sostenibile ed efficace. Per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico. Le conseguenze sono sempre nefaste, come ho potuto constatare con grande tristezza visitando il Rio Grande do Soul.

L’Europa è stata, pur con le sue divisioni interne, una delle più ambiziose in materia di politiche climatiche. Queste azioni hanno consentito un salto di qualità in alcuni ambiti, come conferma il recente State of Europe’s environment dell’Agenzia europea dell’ambiente. Negli ultimi anni sono stati fatti progressi in relazione alla riduzione dell’inquinamento, all'efficienza delle risorse e all'economia circolare, tanto per citarne alcuni. Il nuovo Regolamento europeo sul ripristino della natura, approvato sul finire della legislatura, è un risultato importante per invertire la crisi della biodiversità a livello continentale, e avrà ricadute molto positive anche per l’Italia in relazione allo stop al consumo di suolo, come ha evidenziato l’approfondimento che abbiamo pubblicato sul nostro sito, a cura di Walter Vitali, AndreaFilpa e Rossella Muroni.

L’Europa è però anche il continente che si sta riscaldando più velocemente, come segnalano i dati scientifici di Copernicus, la rete europea di satelliti che studia i cambiamenti climatici, e dell'Organizzazione meteorologica mondiale. Non sta dando seguito alle promesse di eliminazione graduale dei sussidi ai combustibili fossili, che sono di fatto in aumento, mettendo a repentaglio l'obiettivo di rispettare la scadenza del 2025. Non ha investito a sufficienza nelle prime ondate di tecnologia green, ed è rimasta indietro: il dominio della Cina, che controlla fino all'80% di tutte le fasi di produzione dei pannelli solari e il 60% delle turbine eoliche e delle batterie per auto elettriche, è in qualche modo scoraggiante. Alcuni Stati membri, come l’Italia, sono meno avanzati nell’elettrificazione e soffrono la concorrenza di Usa e Cina, perché in passato sono stati lenti nello sviluppare veicoli elettrici e hanno usufruito di deboli incentivi pubblici. Un’ulteriore linea di demarcazione riguarda quel piccolo nucleo di Stati membri, Ungheria in testa, che non vedono la transizione green come una priorità.

Di fronte a queste sfide, le istituzioni europee dovranno impegnarsi per spiegare ai governi nazionali riluttanti e a una parte del mondo produttivo come una politica industriale verde possa essere fondamentale per la competitività internazionale e la creazione di ricchezza a lungo termine. In alcuni settori, come la produzione di pannelli solari, recuperare terreno rispetto alla Cina sarà molto difficile e costoso. In altri settorile prospettive sono più positive. Ma che cosa si potrebbe fare? Secondo Luca De Biase, giornalista e docente universitario,

il punto è quello di trovare l’equilibrio tra la guida politica e la libertà di innovazione (...) Nel dibattito sulla strategia europea si direbbe che sia sopravvalutata la questione della definizione dei rischi e delle normative che si stanno elaborando per limitarli, mentre non sembra altrettanto analizzato l’insieme degli incentivi offerti all’industria europea per sviluppare queste tecnologie e le loro applicazioni.

Nel panorama legislativo dell’Ue stanno accadendo molte cose, ma tre direttive sono centrali in questo momento per le aziende. La Tassonomia europea, con i suoi criteri chiari per le attività economiche sostenibili, rappresenta una guida preziosa. Non si tratta solo di evitare il greenwashing, ma di orientare gli investimenti verso pratiche realmente sostenibili. Le imprese che si conformano a questi criteri migliorano anche la loro immagine pubblica e accedono a finanziamenti green.

La Corporate sustainability reporting directive (Csrd) aggiorna e rafforza le norme relative alle informazioni sociali e ambientali che le imprese devono comunicare. Un insieme più ampio di grandi aziende, nonché Pmi quotate, saranno tenute a comunicare sulla sostenibilità. La rendicontazione si applicherà anche alle Pmi italiane. Il Consiglio dei ministri del 10 giugno ha infatti approvato un decreto legislativo in materia di rendicontazione societaria di sostenibilità che recepisce la direttiva europea. Le nuove norme prevedono, tra l’altro, l’estensione degli obblighi di reporting non finanziario alle Pmi che siano “enti di interesse pubblico” a causa delle loro dimensioni, del numero di dipendenti, dello status aziendale o della natura della loro attività; la sostituzione della “rendicontazione non finanziaria” della Non financial reporting directive (Nfrd) con la “rendicontazione di sostenibilità”. La data ultima del recepimento del testo, su cui dovranno ora esprimersi le Commissioni, è il 10 settembre.

La Corporate sustainability due diligence directive (Csddd), pubblicata lo scorso 5 luglio nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, impone alle imprese di valutare e mitigare gli impatti ambientali e sociali lungo tutta la catena del valore. Questo non è solo un dovere legale, ma può diventare un vantaggio competitivo. Un'azienda che garantisce la sostenibilità dei suoi fornitori evita multe e sanzioni, ma si posiziona anche come impresa etica, attrattiva per investitori e consumatori sempre più attenti. Il provvedimento segna una significativa discontinuità rispetto al passato, come testimoniano le reazioni positive provenienti da più fronti. La Cislha commentato così:

sebbene la versione definitiva del testo sia più “leggera” e meno stringente di quella prevista inizialmente, soprattutto rispetto al campo di applicazione (innalzamento delle soglie di fatturato e n. dipendenti), rappresenta comunque una svolta storica.

L’Unicef, che nel processo di trattazione si è speso affinché i diritti dell’infanzia venissero presi in considerazione in modo adeguato, ha accolto la direttiva come

una pietra miliare per una più completa responsabilità delle imprese a favore dei diritti umani e dei diritti dell’infanzia. 

Sul Sole 24 OreMonica Petaha osservato come la Csddd per le Pmi italiane rappresenti un’opportunità perché molte multinazionali potrebbero sceglierle al posto di fornitori low cost (esteri o in dumping sociale o ambientale) con profili di rischio più alto.

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di Andrea De Tommasi

 

Fonte copertina: pitinan, da 123rf.com

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