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Lasciar evolvere la lingua vuol dire accompagnare le trasformazioni sociali

Redazione Ansa

Vi dirò la verità. La prima volta che ho sentito “medica”, ho pensato che suonasse proprio male. E mi è capitato anche di pensare che scrivere “ragazze e ragazzi” fosse scomodo rispetto a generalizzare con “ragazzi”, soprattutto per motivi di sintesi. Il mio approccio nel tempo è radicalmente cambiato, ma voglio condividere la mia esperienza perché credo che le resistenze culturali e le pigrizie mentali facciano parte della quotidianità di ognuno di noi. Essere sostenibili su tutto non è semplice, “non è un pranzo di gala” per le imprese, come dicono alcuni, ma non è nemmeno una passeggiata per noi cittadine e cittadini. Durante un laboratorio che ho tenuto sull’Agenda 2030, parlando di raccolta differenziata, un bambino delle elementari in tutta la sua spontaneità mi ha chiesto: “Io di solito divido plastica e carta, ma a volte è faticoso e ogni tanto proprio non mi va, che faccio?” In questi casi credo che l’unico antidoto alla pigrizia sia ricordarci perché lo facciamo. Vale per le attenzioni all’ambiente, così come per le sfide sociali. E dunque, quale motivazione deve spingerci a usare (senza sottovalutare) la lingua di genere? Contribuisce davvero a influenzare la parità uomo-donna?

A volte il tema viene sminuito, altre ostacolato. Un esempio eclatante è venuto dalla proposta del Disegno di legge del senatore della Lega Manfredi Potenti, dal titolo “Disposizioni per la tutela della lingua italiana”, intesa a vietare l’uso di termini femminili come “sindaca” e “rettrice” negli atti pubblici prevedendo sanzioni fino a 5mila euro per le infrazioni. L’iniziativa, ritirata il 22 luglio, ha sollevato diverse polemiche portando lo stesso partito a prendere le distanze. Una vicenda che è espressione di un retaggio culturale maschilista che va senz’altro contrastato. In questa sede, però, vorrei più che altro offrire spunti di riflessione concentrandomi sulla questione della lingua di genere non tanto dal punto di vista di chi ostacola apertamente la parità uomo-donna, ma di chi, pur essendo favorevole all’emancipazione femminile,ha delle incertezze o magari delle resistenze parziali o totali sul cambiamento di linguaggio.

Sulla questione del linguaggio di genere le diverse posizioni potrebbero essere sintetizzate in dueforze che tirano la corda agli estremi opposti: da una parte c’è chi frena, sono le posizioni conservatrici che dicono di voler difendere la tradizione, ma anche quelle di chi ritiene che non sia la lingua a incidere sulla parità di genere o che sia solo una delle tante battaglie femministe; dall’altra c’è chi spinge per l’evoluzione dell’italiano, dal maggiore impeto dei movimenti in difesa per la parità di genere a coloro che trovano naturale lo sviluppo del linguaggio in una direzione più inclusiva. Per allentare la tensione sulla corda occorre lavorare sulla promozione di una cultura di genere. Secondo il Rapporto ASviS 2023, il contrasto agli stereotipi deve partire proprio dal linguaggio, considerato una delle “condizioni abilitanti” per avviare un reale percorso verso la parità.

Partiamo da quel “suona male”, uno dei classici argomenti per scegliere di non utilizzare medica, avvocata, ministra o ingegnera. Il punto è che suonano strano perché non siamo abituati a usarle, ma qualsiasi novità comporta degli sforzi mentali. Con l’inglese, per qualche motivo, accettiamo i neologismi con più facilità. Eppure, anche “bypassare”, “implementare”, “splittare” o “screenshottare” potrebbero non suonarci bene. Le lingue cambiano inevitabilmente, riflettendo l’evoluzione della società. La regola da seguire dovrebbe essere sempre quella di preferire l’italiano laddove abbiamo le parole giuste e adottare neologismi quando non le abbiamo. Per le figure professionali il femminile però è previsto già, e Treccani e Crusca ci invitano a usarlo. Anche per sindaca e rettrice.

Un’altra argomentazione sostenuta da chi ostacola la lingua di genere è la sua scarsa rilevanza, sulla scia dell’assunto per cui “ci sono cose più importanti”.  In un’intervista al Corriere della sera, la sociolinguista Vera Gheno ha commentato la proposta del disegno di legge così:

Questa voglia di repressione nei confronti di chi usa il linguaggio di genere è la dimostrazione migliore di quanto queste persone siano in cattiva fede nel momento in cui ne minimizzano la rilevanza: se i femminili fossero poco importanti, non si agiterebbero tanto nel tentativo di vietarli".

C’è anche chi non è in cattiva fede, ma crede che cambiare il linguaggio non possa produrre un cambiamento. Ci sono molti studi in proposito, qui vorrei riportare una citazione da un testo chiave per la lingua di genere che è “Il sessismo nella lingua italiana”, del 1987, di Alma Sabatini, sostenuto tra l’altro già trent’anni fa dalla presidenza del Consiglio dei ministri:

L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria”.

Ampliare l’uso di una parolaintroducendo il femminile, quindi,può cambiare l’atteggiamento nei confronti delle donne. Si pensi a mutamenti ideologici come il passaggio da “negro” a “nero”, da “handicappato” a “persona con disabilità”, ma anche da “serva” a “colf” o “collaboratrice domestica”, da “spazzino” a “operatore ecologico”. La presa di coscienza linguistica va di pari passo con quella sociale e politica. Secondo Sabatini, infatti, la lingua esprime una visione del mondo.

 Un tema approfondito durante un seminario interno all’ASviS, a cura del Gruppo di lavoro sul Goal 5 (Parità di genere), tenuto nel 2021 dalla professoressa Stefania Cavagnoli dell’Università di Roma Tor Vergata su “Curare la lingua per contrastare gli stereotipi”. Durante l’incontro è stata presentata l’ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui la lingua condiziona il nostro modo di pensare e influenza la percezione del mondo:

Il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere le idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo”.

Preservare una lingua, allora, non vuol dire ostacolarne l’evoluzione, ma lasciare che si sviluppi insieme ai cambiamenti della società. In passato molte professioni non erano svolte dalle donne e quindi non c’era l’esigenza di denominarle, oggi però sì. Un’etichetta maschile non può rappresentare una donna se vogliamo seguire l’evoluzione del nostro tempo. Se leggiamo una notizia che titola “Il ministro della Salute: ‘Sono incinta’” potremo cogliere facilmente l’incongruenza. Così come la scelta di usare “il presidente del Consiglio” per riferirsi a Giorgia Meloni, annunciata nel 2022 da Palazzo Chigi, riflette lo stereotipo del potere che risiede nella figura maschile.

I ritardi sul linguaggio di genere in politica mettono in luce in realtà la lunga strada ancora da percorrere nel settore. Secondo il nuovo Global gender gap report, l’Italia si è posizionata 87esima su 146 Paesi del mondo, con il punteggio più basso proprio nell’empowerment politico.

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di Flavia Belladonna

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