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Il mondo cyborg di Gucci

Modelli con copia loro testa in mano sfilano in sala operatoria

Redazione Ansa

(di Gioia Giudici) Siamo tutti cyborg, identità ibride che superano la dicotomia di natura e cultura, maschile e femminile, normalità e diversità. Una divisione artificiale, che il potere usa come strumento di controllo. E' la tesi del 'Manifesto cyborg' della filosofa femminista Donna Haraway, che Alessandro Michele rilegge nella collezione disegnata per Gucci, ambientando la sfilata in una sala operatoria. Qui, tra tavoli asettici e luci livide, una modella apre lo show tenendo in mano la copia esatta della sua testa, sotto gli occhi di ospiti come Donatella Versace e Nick Cave. La testa, che poi torna in scena anche in versione maschile, è un manufatto dalla verosimiglianza impressionante - realizzato in sei mesi di lavoro dallo studio Makinarium - che fa capire da subito come in via Mecenate si tenti di andare oltre l'abito in sé: "oggi la moda - riflette Michele - ha più coscienza che in passato, molti di noi oggi non fanno solo abiti, hanno l'urgenza di mettere in atto qualcosa di potente. A me non va bene fare una gonna e una camicia, questa - sottolinea l'uomo che ha contribuito alla crescita del 41,9% del fatturato di Gucci - è un'istigazione". E non sarà un caso che l'invito alla sfilata sia un timer con countdown. Questa volta, poi, il discorso iniziato ormai da qualche stagione, con la contaminazione tra i generi, i codici e le epoche che sono la cifra di Michele, si spinge un passo più avanti, fino a dichiarare chiaramente che "siamo in un'era post umana, questa è un'epoca capace di andare oltre e infrangere regole, decidendo chi essere, quale orientamento avere, e non è un trend ma qualcosa che succede: io - sottolinea - sono felice di essere nato ibridato, tutti lo siamo". Come un chirurgo che taglia e riassembla per dare nuova vita, noi tutti come uomini ogni giorno per Michele "ci riappropriamo di ciò che vogliamo essere, siamo noi stessi i dottor Frankenstein delle nostre vite". E quello che facciamo in modo profondo con i nostri cuori, le nostre anime, affrontando tormenti e sofferenze per definire un'identità che non sia già data, la moda lo fa "in modo poetico". Ecco perché ambientare una sfilata in un corridoio di ospedale, ecco perché far sfilare modelle con un occhio sulla fronte o uno sulla mano, con un drago in braccio come se fosse un bambino o corna di fauno in testa. Siamo cyborg - è il pensiero di Michele - perché "la rappresentazione di noi stessi passa per la sala operatoria del nostro cervello attraverso qualcosa di ultra naturale".
    Ed ecco che gli abiti sono chiamati a rappresentare questa "allegoria del dover divenire": sono codici presi da mondi diversi, dal copricapo sikh del tassista newyorchese a quello innuit, dal cappello tribale a quello rubato alla factory, dall'abito "che usava mio padre - ricorda lo stilista - per lavorare all'Alitalia" a quello della signora borghese che va in banca. Ci sono le immagini hollywoodiane, le felpe con il titolo del film cult di Russ Meyer o con il logo della Paramount, le scarpe da montagna e i sandali da tedesco con gli strass, i completi di pizzo con la G del marchio all over, i veli ricamati, il maglione cartoon e la nuova grafica con il font della ditta anni 80 che fa videogiochi. E' un'umanità non definita, dove il post umano è rappresentato da una donna con in mano un serpente, una figura che per Michele è simile al divino: "alcuni giovani oggi lo sono e questo - conclude - è il mio modo di restituirgli il potere che hanno. Io non ho bisogno di cercare idoli, perché sono tra noi. Un tempo si andava in chiesa in cerca dell'illuminazione, io sono illuminato dalle persone che incontro".
   

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