“Quel clown è un uomo o una donna? Né l’uno, né l’altra. È un clown”.
Tante suggestioni: la pelle della donna tatuata, memoria di quel circo vittoriano e dei suoi fenomeni grotteschi, diventa una tuta dai disegni meravigliosi che plasmano il corpo, diventando narrazione da indossare sotto gli abiti. I colori polverosi, declinati e intrecciati in una palette infinita, come quelli che impastano il sipario dipinto da Pablo Picasso per il balletto Parade, simboleggiano anch’essi quell’usura, quella polvere sottile che riveste gli abiti da scena. Le gonne ricamate o incrostate di paillettes opache da lunghe si accorciano fino a diventare tutù che alludono ai codici del circo, abitato da acrobate, domatori e cavallerizze. Chiuri fa appello a questa incredibile varietà di suggestioni per comporre una sua personalissima Parade, composta da pantaloni ampi, leggerissimi, stretti alla caviglia, che possono diventare tute magnificenti. Shorts neri si abbinano a camicie bianche trasparenti, completate da gorgiere o da nastri che sembrano sfilacciati dal tempo. Ritroviamo inoltre busti in pelle, marinière, e giacche impronta nera di quelle da domatore. L’abito geometrico del clown, bianco, sobrio o sfarzoso, è reinterpretato nei materiali, nei ricami e nelle proporzioni. Circo come luogo inclusivo, dove il clown, nella sua dimensione androgina e asessuata, diventa espressione di una possibile uguaglianza: il suo sguardo smaschera una modernità, e non sono più la bellezza, la razza, il genere o l’età a contare, ma la tecnica e l’audacia.
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