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Gangcity, viaggio tra frontiere urbane e periferie del mondo

Alla Biennale, un grande progetto di ricerca racconta la relazione drammatica tra degrado urbano e sociale

Redazione Ansa

80 scatti in bianco e nero di sei maestri della fotografia per raccontare da diverse angolazioni oltre 40 anni di drammatica relazione tra degrado urbano e degrado sociale. Gangcity, la mostra fotografica ospitata nello spazio Thetis dell’Arsenale Nord di Venezia fino al 27 novembre 2016, è un viaggio nelle periferie del mondo, negli spazi in cui gang e organizzazioni criminali proliferano nel fertile terreno rappresentato dai cluster urbani. 

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La mostra è arricchita da due esposizioni: una di opere di design con lo scopo di analizzare, attraverso la creatività provocatoria di oltre 20 artisti internazionali, oggetti, simboli e linguaggi delle gang; una legata alla sfera religiosa e rituale. Il percorso espositivo Gangcity è parte dell’omonimo e più ampio progetto di ricerca , promosso da Politecnico e Università di Torino, che fa da evento collaterale alla 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. L’intera iniziativa prevede, durante i sei mesi di attività, eventi culturali, workshop, concorsi e incontri per coinvolgere Istituzioni, mondo accademico, comunità scientifica, artisti di ogni disciplina e cittadini sul tema delle gang e studiare strategie di riqualificazione per le gangcity.

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L’esposizione fotografica si sviluppa tra la tragica Palermo di Letizia Battaglia, la Roma borderline dei graffitari di Valerio Polici, la desolazione di Scampia di Salvatore Esposito, la Napoli degli storici fatti di camorra e le visioni dell’Albania di Francesco Cito, le gang dell’America latina di Donna De Cesare, che ha documentato da vicino anche il coinvolgimento di bambini, e la violenta East Los Angeles di Walter Leonardi. La selezione, curata da Anna Zemella, racconta luoghi e fatti malavitosi che hanno in comune corruzione, violenza, fatica e dolore tra strade, quartieri e ambienti degradati, a livello morale e materiale.

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La mostra di design, curata da Davide Crippa, docente di Design degli Interni alla Scuola di Design del Politecnico di Milano, che propone un percorso provocatorio tra i linguaggi, i simboli e i rituali delle gang come parti integranti della quotidianità, sia degli affiliati, sia dei cittadini estranei alle organizzazioni criminali. Ognuna delle opere esposte contiene due valori e più significati, ovvero quelli dell’immaginario collettivo e quelli delle gang. “Si tratta di una collettiva di oltre 20 designer – spiega Crippa - molti dei quali già premiati con il Compasso d’oro, che intende raccontare le gang giocando sulla convivenza improbabile di significati diversi, spesso contrapposti. Il design è una disciplina per sua natura provocatoria in grado di proporre nuovi punti di vista. Nasce così l’idea di esporre, ad esempio, un pettine-coltello, un libretto di istruzioni per costruire armi con pezzi dell’Ikea, un materasso-crocifisso, un rosario-tira pugni o uomini di cartone che si smaterializzano a seconda della prospettiva.”

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Anche la mostra sui simboli sacri gioca sull’ambivalenza dei significati. “Partendo dai tatuaggi che ornano il corpo di molti affiliati ad una gang – spiega Roberto Lavarini, docente di Sociologia della Comunicazione allo IULM di Milano e curatore dell’esposizione sulla simbologia religiosa - abbiamo osservato che spesso riproducono immagini sacre della tradizione cristiana. Il significato delle immagini, però, non è quello classico, storico, ma assume valenze diverse connesse alla vita e alle scelte fatte dall’affiliato.”

I fotografi di Gangcity sono esempi di coraggio, impegno sociale, passione e coerenza. Ecco piccole descrizioni di loro stessi e del  loro lavoro, tratte dal catalogo.

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Francesco Cito, tra i nostri fotoreporter di fama internazionale (dall'Afghanistan al conflitto palestinese, dalla Guerra del golfo a quella dei Balcani lui c'era

Ecco cosa racconta: Albania, Codice Kanun
L'Albania del dopo dittatura di Enver Hoxha mi apparve in tutto il suo folle isolamento, appena sbarcato nel porto di Valona, agli inizi degli anni 90, ma nulla faceva presagire gli aspetti arcaici, poi riscontrati anni dopo, quando ho iniziato ad interessarmi del Codice Kanun. Avevo creduto che il regime comunista avesse estirpato le usanze medievali, così come aveva cercato di debellare la religione dall'animo del popolo. Agli inizi anni del 2000, ero nel nord del Paese, dovevo raccontare una storia di squallida criminalità sulla tratta delle ragazze da far prostituire in Italia. A Scutari, mi fu raccontato dell'esistenza, come da biblica memoria, del codice. "Occhio per Occhio" stilato nel XV sec. dal principe Leke Dukagjini e, come in quel Medio Evo, numerose famiglie erano barricate fra le mura domestiche, per anni, pur di non cadere vittime loro stesse della vendetta di altri, per il lutto di un precedente fatto di sangue, in una faida senza fine. Non importa quanti anni dovranno trascorrere, ma nessun membro maschio della famiglia sarà mai immune dalla vendetta, ancora oggi che l'Albania è fuori dal suo isolamento.

E Napoli

Per anni ho vissuto in Inghilterra. Per anni lontano da Napoli, e,come per un'attrazione fatale, è sempre accaduto di ritornare, non per abbracciare un'amante scolorita, ricordo da viale del tramonto, ma ritornato per raccontare le tante storie da prima pagina, di cronache quotidiane. Potrei definirlo lo strano caso di … ma fu proprio in quella Londra, nuova patria di me giovane, agli inizi del mio percorso professionale, ad essere inviato li dov'ero nato, dal Sunday Times Magazine, per raccontare la storia del contrabbando di sigarette. Da allora, altri fatti, altre vicende da pubblicare sulle pagine dei rotocalchi internazionali e nazionali. Ogni volta un'amante diversa, un'amante vestita di nero, un'amante in lutto perenne, non più rappresentata in cartolina da "pino e Vesuvio", non più Neapolis. Partenope aveva partorito non più leggende ma: Terremoti, Scampia, Camorra, Stragi, Processi, e poi Neapolitan Wedding per respirare un po’.

Valerio PoliciErgo Sum
Seppur considerato, a ragione, una forma di crimine minore, il "graffitismo" si manifesta attraverso dinamiche molto simili a quello della criminalità organizzata. Racchiude nel suo micro-mondo un sistema di networking estremamente complesso e organizzato, ci sono codici, scontri tra gruppi rivali, la ricerca della supremazia, la sfida all'autorità. Fermo restando la relatività del danno che questa tipologia di reato produce rispetto ad altre forme di criminalità, uno sguardo più approfondito in merito, libero dall'assordante sensazionalismo, è importante perché molto spesso questo piccolo universo parallelo funge da contenitore di rabbia e, se mal gestito, da ponte verso reati maggiori. Il mio progetto fotografico, realizzato tra Europa e Argentina negli ultimi cinque anni, vuole provare a raccontare questa comunità interrogandosi sul fascino crescente che esercita sui giovani. Non più retaggio delle classi meno abbienti come ai suoi albori nei ghetti di New York, ma strumento di fuga e riscatto per tutti.

Salvatore Esposito – The Hell of Scampia
Quando inizi un lavoro in una periferia tutto ti sembra duro ed ostile all’inizio, sia la gente ma anche l’architettura che la ospita. A Scampia l’architettura fa da padrona, con le Vele e i palazzoni alti e uguali che non arredano ma segnano il territorio. Il mio lavoro con i giovani spacciatori ha richiesto alcuni anni, non è facile entrare in contatto con vite che hanno trascorsi così duri, ti imbatti in una situazione sociale che ha problemi di tutti i generi e soprattutto è lasciato a se stesso dallo Stato in un posto studiato a tavolino dove poterli abbandonare. La nostra felicità è determinata da ciò che siamo e da dove viviamo. Gli occhi si nutrono della bellezza circostante dell’ambiente, come si può essere felici tra palazzoni di cemento?

Walter Leonardi - Gang di Los Angeles
Nel 1991 ero a Los Angeles e trovai un contatto per entrare in East Los Angeles e fotografare la gang Geraghty Loma, tra le più antiche e violente, nella zona chiamata Alpi Messicane. Quell'anno il regista Edward James Olmos aveva girato a East Los Angeles il famoso film sulle gang "American me" che aveva coinvolto molti componenti delle gang. Conobbi uno dei capobanda, consulente al film, che mi presentò a un altro giovane capobanda a cui chiesi di mostrarmi la vita dei suoi compagni, di entrare nelle loro case, di fotografare la loro gestualità rituale, le armi e le ferite sui corpi, i murales e i tatuaggi dei giovani, la colla sniffata come droga, i bambini, molto amati ma con un futuro segnato, la "Eddie Heredia Boxing Club", famosa palestra di boxe che rappresenta ancor oggi una delle poche chance per i ragazzini di togliersi dalla strada. Tempo dopo seppi che tre dei consulenti di "American me" furono assassinati dalla mafia messicana che non aveva gradito il film.

Donna De Cesare 
I teenagers e i bambini che ho fotografato dagli Stati Uniti, El Salvador, Guatemala e Colombia stanno crescendo in paesaggio sociali segnati da povertà e violenza. Ogni situazione ha una propria specifica storia di migrazione e abbandono. Queste foto sono un atto di testimonianza , sollecitano a guardarci intorno

Letizia Battaglia
Se chiudi gli occhi e immagini di avere di nuovo trent’anni, dove saresti e cosa faresti?
“Farei la fotografa a Palermo. Non posso pensare niente di diverso. Io devo stare lì a guardare Palermo, perché è come se la volessi proteggere. Potevo vivere a New York e lavorare, potevo stare a Parigi o Berlino, ma sono troppo legata alla mia città. Dopo una settimana che sono via scalpito, sto male, non mi godo più niente. Ho sempre paura che succeda qualcosa. Forse tutto questo dipende dall’aver vissuto tanti anni in cui non sapevi, andando a letto, quando ti saresti alzato e per quale motivo. Con Palermo c’è sempre stato un rapporto di rabbia e di dolcissima disperazione. La sento malata e mi fa arrabbiare. Io vorrei andarmene ma non ci riesco, la amo morbosamente e ho ancora molte cose da fare nella mia città.” 

 

 

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