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Mascolinità, essere maschio è una storia (non finita) di liberazione

Al Barbican di Londra una mostra racconta dagli anni '60 il percorso verso la complessità

Redazione Ansa

Mascolinità: come ci si aspetta che ragazzi e uomini si comportino per il fatto di essere di genere maschile, dunque maschi. Storicamente è a partire dagli anni '60 del Novecento che il racconto della mascolinità si è fatto meno univoco: erano gli anni della rivoluzione sessuale, delle lotte per i diritti civili, della nascita del movimento per i diritti dei gay, gli anni della controcultura e delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. E da quel momento che l'essere maschio, pur in una società patriarcale fondata sul potere e il dominio del maschio, allora come oggi, ha cominciato a prendere varie strade e varie forme. Sono quelle documentate nella mostra Masculinities: liberation throug photography al Barbican di Londra fino al 17 maggio 2020. 

I cambiamenti sociali sono fissati da scatti artistici noti e meno noti, le serie di Robert Mapplethorpe, Richard Avedon, Laurie Anderson, Hal Fisher, di Sunil Gupta e Peter Hujar (questi ultimi due celebri per le foto di vita gay tra San Francisco, New York e la Londra repressiva della Thatcher). Documentando fotograficamente la ricerca sull'identità sessuale (queer), sull'idea di razza (solo in anni relativamente recenti ad esempio i neri e gli afroamericani si sono riappropriati della loro unicità di corpo rispetto ai bianchi e gli scatti di Samuel Fosso ce lo ricordano), sul potere e il patriarcato, sugli stereotipi della mascolinità dominante (l'essere 'forti', 'refrattari alle emozioni') e della famiglia (pensiamo a tutti i retaggi sui padri-padroni 'duri', non collaborativi in casa nè per le faccende domestiche, nè per la cucina, nè per l'aiuto nella crescita dei figli), la mostra prende per mano il visitatore e gli fa fare un lungo percorso 'educativo' al termine del quale dovrebbe essere chiaro che la mascolinità ha una miriadi di forme, è piena di contraddizioni e complessità.
Abbracciando l'idea di molteplici "mascolinità" e rifiutando l'idea di un singolare "uomo ideale", la mostra, che accoglie ogni mattina intere classi di studenti ed ha un fitto programma di laboratori, vuole sostenere la comprensione della mascolinità libera e liberata dalle aspettative della società e dalle norme di genere. Ed è questo un importante valore culturale ed educativo: quando si cercano le ragioni dei femminicidi prima o poi, pur senza generalizzare, ci si imbatte in questo ossia nell'idea codificata del maschio, del comportamento di dominio 'che deve avere' secondo storia e tradizione, nella consapevolezza errata con cui è cresciuto nella società patriarcale ragion per cui ogni fatto o comportamento femminile che gli sembra contrario a questa idea va ad intaccare la mascolinità con le conseguenze estreme purtroppo tristemente note.
Anche se si parte dagli anni '60 l'esposizione del Barbican è assolutamente attuale anzi tempestiva se si considera l'attuale politica globale caratterizzata da leader mondiali maschili che si pongono pubblicamente come uomini 'forti' (un immaginario smontato scatto dopo scatto), mentre proprio gli effetti collaterali della mascolinità tossica sono sotto i nostri occhi e hanno generato tra l'altro il movimento #MeToo e portato in tribunale un simbolo di quel dominio maschile come Harvey Weinstein.
Tra le foto più interessanti, oltre ai ritratti già citati, l'immensa parete con i ritratti di Piotr Uklanski degli ufficiali nazisti - l'immagine hypermascolina -  e i loro omologhi al cinema e gli scatti di Hal Fischer sulla 'Gay Semiotics': i codici gay della comunità di Castro ancora vivi oggi dagli anni '70 ossia la pelle, i baffi, le canottiere, i calzini bianchi, il fazzoletto nella tasca dietro dei jeans, le chiavi portate fuori, ossia gli speciali segnali della comunità diventati in anni di repressione dei codici fashion per comunicare gli uni con gli altri.

 

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