La romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe. La sentenza lapidaria era scritta, in spagnolo, su un lenzuolo appeso ad un balcone di Madrid. La foto è diventata virale e ispiratrice di vignette, come quella bellissima di Bruno Iyda Saggese. Superato lo choc delle prime settimane e quell’istinto di collettività e unità che ci ha fatto affacciare alle finestre, partecipare ai flash mob spontanei per rendere omaggio ai sanitari e intonare l’Inno d’Italia, ora con il tempo che passa molte cose appaiono più complesse. Non c’è una quarantena ma tante quarantene perché se il Covid-19 è una livella per dirla alla Totò e non guarda in faccia nessuno, personaggi famosi e persone sconosciute, la vita in lockdown è tutt’altro che uguale per tutti.
Immaginiamo di visualizzare la società per classi, senza entrare nel merito nè giudicare: è una piramide. In cima ci sono le persone che non hanno problemi economici di sorta, abitano in centro in case con l’attico o fuori città in ville piene di ogni comfort. Stare chiusi in casa per loro è godere di quel tanto che hanno: case super accessoriate, studi dove appartarsi concentrando le attività intellettuali, leggere, ascoltare musica, avere ciascuno un computer per lavorare da remoto. Ciascun familiare ha spazio per se, dispense piene di ogni cibo, consegne a casa così da non dover fare file in strada. Se c’è il sole si sdraia sul lettino e sogna di essere al mare, tutto rigorosamente documentato sul profilo instagram.
Subito dopo vengono i benestanti con case spaziose ai piani alti, luminose, con ogni comfort e abbonamenti alle piattaforme di streaming, magari erano già abituati al binge watching, l’abbuffata di serie tv su Netflix e dintorni, anche se cinema e teatri hanno chiuso pazienza intanto si va avanti con i film in abbonamento di prima visione per passare le serate.
Via via che si scende la scala troviamo le famiglie seriamente preoccupate per il futuro, il tempo del lockdown è un tempo sospeso come si dice, ma anche di stipendi. Non hanno entrate certe, sono lavoratori di attività ferme da oltre 30 giorni e alla riapertura chissà. Professionisti con partite iva, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi. Le stime parlano di percentuali a due cifre per negozi, studi, ristoranti che non avranno la forza economica di riaprire. Sono persone che più di altre aspettano le decisioni del governo su aiuti e piani per la fase 2, contando su prestiti e cercando di capire se sperare o disperarsi. In queste famiglie le lezioni a distanza non sono una nuova realtà oltre che necessità perché gli strumenti tecnologici a disposizione per la scuola digitale non sono per ciascun singolo familiare e così il ritmo delle giornate ha il passo della staffetta quando ci si passa il testimone, in questo caso smartphone o pc. E’ vero la scuola nella gran parte sta dando la possibilità di ricevere dove c’è bisogno qualche device in più e questo è un segno di importante civiltà. Ma l’affollamento nelle quattro mura di pochi metri quadri è uno stress non da poco.
Scendendo ancora più giù nella piramide ci sono i poveri, lo erano già prima si dirà, ma con l’emergenza coronavirus si sono impoveriti ancora di più: non hanno contratti di nessun tipo, il budget a disposizione era in tanta parte legato a paghe retribuite in nero o arrotondate, dunque ora si ritrovano senza soldi pure per pagare l’affitto. E non ovunque ci sono gesti generosi come quelli di due insegnanti, Luigina e Carlo che a Torino hanno deciso di abbassare del 50% il canone di affitto per venire incontro alle famiglie che abitano le loro due case di proprietà.
I poveri convivono 24 ore su 24 in case piccole, ai piani bassi e i loro figli erano già a rischio perdita scolastica e sociale, oggi più che mai sono i ragazzi che non riescono a stare al passo con la scuola a distanza perché magari non hanno la connessione in casa e vederli chiudere per sempre con l’istruzione è un attimo.
Alla base della piramide gli ultimi tra gli ultimi, i poverissimi, che vivevano della generosità della collettività e ora con meno disponibilità economiche in generale e con pochissima gente in giro rischiano di non avere il pasto per la cena, non possono restare a casa, perché una casa non ce l’hanno.
Da tutto questo affresco, che è sotto gli occhi di ciascuno di noi, sono escluse le donne: non c’è classe sociale, è dimostrato ampiamente, che le preservi da sopraffazioni e violenze. Vivere in un bell’attico non salva affatto.
Come ha scritto la scrittrice femminista Helen Lewis in un intervento su The Atlantic rilanciato dal gruppo Femminismo Felice, la quarantena sta rischiando di riportare indietro agli anni ’50 la condizione femminile: in una 'famiglia tipo' a casa in questo periodo, l’uomo riuscirà sempre ad avere tempo e spazio per il suo lavoro, la donna ai suoi impegni aggiungerà la cura della casa e dei figli trovando l’aiuto del compagno solo in poche occasioni e se uno dei due non tornerà al lavoro è molto più facile che capiti a lei che a lui ritrovandosi così di botto a diventare casalinga senza averlo scelto.
Per non parlare della violenza domestica: le telefonate ai centri antiviolenza (sempre a corto di fondi nonostante siano servizi quelli si di prima necessità) durante questo mese è più sono aumentate del 74,5% in più rispetto alla media mensile solita, secondo i dati raccolti dalla rete Di.Re. donne in rete contro la violenza. Ed è stata attivata dal governo la app antiviolenza, il numero 1522 che è una chat che permette di chiedere aiuto a distanza e magari chiamare di nascosto visto che con il compagno violento si è costrette a convivere. I bollettini tragici di queste ore non fanno che confermare questa tendenza di aumento esponenziale di violenze e femminicidi.
Questo affresco, anche dolente spiega l’equazione dell’abitare di cui solo ora con l’emergenza Covid ci siamo forse resi più conto: c’è una relazione inversamente proporzionale tra la luce, i metri quadri e la paura in questi giorni. Meno luce e meno metri quadri ci sono in una casa, più grande è la paura, come ha scritto la giornalista di Vice Spagna Ana Iris Simon.