In occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, giorno anche di una vasta mobilitazione in tutta Italia parliamo anche di quel “nuovo genere di volontariato” che ha visto nascere fin dagli anni Ottanta i primi centri impegnati a dare alle vittime di violenza il sostegno, la solidarietà e la competenza di cui avevano bisogno. Quanti sono oggi in Italia i centri antiviolenza, quante le donne che vi lavorano, spesso gratuitamente, quanti i fondi di cui possono disporre per l’accoglienza, le cause giudiziarie, i costi delle “case rifugio”? Chi ne parla?
In Italia il nucleo territoriale del sostegno alle donne vittime di violenza è costituito dalla rete di Centri Antiviolenza (CAV) e Case Rifugio per donne maltrattate.
Nei Centri Antiviolenza sono presenti figure specializzate che offrono, spesso a titolo volontario, uno spazio di ascolto e accoglienza per le donne che hanno subito violenza. Tramite sportelli e colloqui viene fornita una consulenza specifica per la vittima, che può trovare aiuto da parte di psicologhe, avvocate, mediche e altre professioniste. Presso i Centri è anche possibile trovare forme di auto mutuo aiuto.
I Centri Antiviolenza e le Case Rifugio sono nati negli anni '70 con il femminismo e, nei fatti, hanno anticipato di un paio di decenni l’azione pubblica dello Stato.
Nel sistema antiviolenza il ruolo del secondo welfare è fondamentale da molto tempo e si concretizza in due aspetti: operativo, grazie al contributo del volontariato per il funzionamento delle strutture e dei servizi; economico, visto che in più della metà dei casi finanziamenti privati vanno a integrare quelli pubblici. I fondi pubblici negli anni sono aumentati, ma c'è un problema: ci sono più risorse, ma non arrivano in tempi utili. A fronte di questa situazione il sistema antiviolenza può continuare a operare per la tutela delle donne solo grazie al fondamentale contributo operativo delle volontarie e all'apporto economico e organizzativo garantito dal secondo welfare.
Dietro i femminicidi, che arrivano come casi di cronaca sui media - sottolinea la giornalista e attivista sin dagli anni '70 del Movimento femminista Lea Melandri in un articolo sul Riformista rilanciato da Comune Info - c’è il mondo sotterraneo delle violenze fisiche e psicologiche che li preparano e c’è il lavoro difficile e faticoso di chi si è messo all’ascolto di tanta sofferenza, ambiguità, denunce fatte con coraggio e poi ritirate. Posti sempre a rischio sfratto - come nel caso di Lucha y Siesta a Roma - o centri dove i fondi arrivano con il contagocce.
In questi giorni una petizione on line su Change.org invita a firmare perchè l’intesa stato-regioni del 14 settembre 2022 rischia di chiudere i Centri antiviolenza, lasciando molte donne senza supporto. "I Centri antiviolenza sono fondamentali per fornire sostegno e rifugio a queste donne. Chiediamo quindi che sia rivista l’intesa, al fine di garantire che tutti i centri rimangano aperti e funzionanti".
Nel libro Al centro le parole. 35 anni di pratica femminista, il Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza ha raccolto le testimonianze delle operatrici e quelle di chi ha avviato con loro un percorso di “ripresa in mano della propria vita”. Sono voci che si alternano nel rispetto delle scelte di empatia, uguaglianza, assenza di giudizio, che sono state alla base del loro operato. Riconoscere i condizionamenti che impediscono a una donna di sottrarsi alla violenza di un marito, di un amante, di un padre, vuol dire non sottovalutare le contraddizioni di un dominio che ha perversamente intrecciato rapporti di potere e sfruttamento con esperienze intime, come l’amore, la sessualità, la maternità, gli affetti familiari. È nell’ accoglienza e nell’ascolto di altre donne che la parola può farsi portatrice di ferite e, al medesimo tempo, della forza e del coraggio che la violenza protratta ha reso invisibili". Scrive Paola Litrenta, una delle operatrici: “Il più delle volte ci si siede attorno a un tavolo: corpi e sguardi asimmetrici. Da una parte le operatrici, dall’altra parte le donne. Ciascuna con la sua propria formazione, la propria identità, la propria storia. E al centro? Al centro le parole, i racconti. Al centro la relazione (…) Le parole sono dense, hanno un peso specifico. Riempiono lo spazio, accolte e trattenute dai muri alti delle stanze. (…) La transazione non è così immediata, ci sono i sentimenti, il senso di vergogna, la rabbia, la voglia di riscatto, il bisogno di protezione. Il confronto le cambia, cambia anche noi: relativizza ciò che ci agita nella nostra quotidianità”. L’analisi della violenza sessista e la pratica con cui il femminismo a partire dagli anni Settanta ha cercato di portarla alla coscienza, in tutte le sue forme, invisibili e manifeste – l’autocoscienza, il partire da sé -, è il terreno di una radicalità fino allora sconosciuta che oggi accomuna nel movimento di liberazione delle donne generazioni diverse, associazioni, centri di documentazione, case delle donne, centri antiviolenza. La trasversalità del patriarcato, i nessi che ci sono sempre stati tra forme diverse di oppressione, per essere visti nelle loro ambigue implicazioni, hanno bisogno di una lingua che sappia inoltrarsi nella vita intima e contemporaneamente linguaggi delle istituzioni pubbliche. "Su questa parola sottratta ai saperi settoriali e alimentata dalla relazione tra donne poste di fronte alla “guerra ai loro corpi” nel privato come nel pubblico, i centri antiviolenza hanno molto da dire".
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