Sulla falsariga del greenwashing per l'ambiente, si sta diffondendo sempre di più anche il Pinkwashing. Un termine formato dalla crasi tra "pink", rosa, che storicamente indica il genere femminile anche se come è noto l'identità sessuale non ha colore e "whitewashing", nascondere. Questa parola è stata usata per la prima volta dalla Breast Cancer Association, un'associazione per la lotta del cancro al seno, per identificare le aziende impegnate nella lotta al cancro al seno con prodotti o azioni dannosi alla salute. E di recente il neologismo si amplia anche a tutte quelle iniziative che mettono una etichetta non sincera su temi su cui c'è grande sensibilità contemporanea come quelli del femminile, contro la violenza delle donne, per i diritti lgbt (rainbow washing).
Dal suo osservatorio dei trend che influenzano e modificano i consumi a livello globale, FutureBrand ha posto un focus su questo tema controverso: il Pink Ribbon in ambito marketing/comunicazione, vale a dire il “fiocchetto rosa” che accompagna iniziative a sfondo sociale o etico delle imprese. Far leva sui bisogni dei consumatori, sfruttando soprattutto l’aspetto emotivo che lega pubblico e brand, è il segreto-non-segreto del marketing, secondo l’analisi di Elena Vardanega, Sr Strategist FutureBrand. Il tasso emotivo è ancor più elevato quando ci sono di mezzo iniziative legate alla salute, alla cura o al sostegno a malattie gravi e per due ragioni: la prima è che si tratta di temi di grande risonanza e, in secondo luogo, riescono a incanalare il desiderio delle persone di dare il proprio contributo, di dire di aver sostenuto una causa importante. Per questo, il fiocchetto rosa, il Pink Ribbon applicato ormai a un’infinità di prodotti, può trarre in inganno chi è convinto di fare la propria parte sostenendo una buona causa. Tutto si riconduce all'eticità della filiera ma non sempre è facile ricostruirla.
Dove si nasconde l’insidia? “Nell’incoerenza – afferma Vardanega - quand’anche non si tratti di scelte completamente sbagliate. Un esempio su tutti: nel 2013, “Susan G. Komen”, una delle maggiori organizzazioni per la lotta al cancro al seno, accettò la sponsorizzazione della Baker Hughes, società di servizi petroliferi. A fronte di un’ingente donazione, vennero dipinte di rosa un migliaio di trivelle per l’estrazione di combustibili fossili, un’iniziativa lodevole… peccato che l’industria del fracking sia responsabile della dispersione nell’aria di tossine che provocano proprio il tumore al seno”.
E quindi come fanno i brand a navigare nella Pink Ribbon Mega Industry, evitando di incappare in iniziative boomerang potenzialmente lesive della loro reputazione? “La prima risposta – specifica Vardanega - è tornare al vero significato del ‘fiocco rosa’, comunicando in modo trasparente e chiaro le donazioni che il brand si impegna a fare (solo tra il 2% e il 5% dei fondi raccolti per la ricerca contro il cancro al seno arriva fino al quarto stadio della ricerca - METAvivor). Secondo, ma non meno importante, evitare di ricorrere a queste iniziative per semplici scopi di marketing. Aumentare la consapevolezza e far leva sulla sensibilità dei consumatori senza produrre azioni tangibili, disperde gli sforzi: il contributo minimo per le partnership che sostengono la causa si aggira tra il 10% e il 20%, a fronte di una donazione media inferiore al 10% dei proventi. (Founder, Rethink Breast Cancer).
Ci sono però anche numerosi esempi positivi; eccone due: torna l’iniziativa ‘‘FrecciaRosa – La prevenzione viaggia in treno’’ – progetto promosso dalla Fondazione IncontraDonna e dal Gruppo FS – che porta consulti e visite gratuite sui temi della salute e della prevenzione dei tumori al seno nelle stazioni ferroviarie e sui vagoni. E per il sesto anno consecutivo, il brand Mango riconferma la partnership con Fondazione FERO, organizzazione di riferimento nella ricerca contro il cancro al seno, con una collezione di capi solidale, necessaria e di grande contributo e valore per molte donne, tra cui reggiseni post-mastectomia, il cui ricavato sarà interamente devoluto alla Fondazione.
L’evoluzione del Pinkwashing è multicolor
Dimostrare la propria sensibilità verso il tema della salute non è l’unico fil rouge che accomuna le campagne di cause-related marketing. Il mondo di oggi, in cui perfino Victoria’s Secret ha sostituito i suoi Angeli con un ‘‘Collettivo’’ di donne famose per i propri successi e non solo per il fisico, preme perché le marche rappresentino tutte le donne e tutte le loro istanze. Mostrarsi attenti alle cause sociali non è più un’opzione per le aziende e questo fa sì che il Pinkwashing finisca per toccare molte altre iniziative portate avanti dai brand che tentano di abbracciare temi legati al femminismo e questo trasversalmente a tutti i settori, dalla cosmesi al cibo, dai gioielli all’abbigliamento. Pinkwashing, oggi, è anche il Femvertising, termine che si riferisce alla strategia di comunicazione che combina i principi del femminismo all’advertising per rappresentare modelli femminili forti e propositivi. La crescente sensibilità per le cause sociali ha prodotto altri termini di denuncia come Rainbow washing riferito alle comunità LGTQ+; il Purplewashing o il Violetwashing impiegati dai collettivi femministi per denunciare le strategie politiche e aziendali che tentano di strumentalizzare le lotte femministe.
Vademecum anti-Pinkwashing – il rosa non è il problema
“Oggi - conclude Vardanega - le marche sono chiamate a farsi paladine dell’inclusività e dell’apertura mentale. Limitarsi a fare Pink propaganda come se parità, inclusività, diritti fossero semplicemente un altro prodotto da vendere è nocivo per il brand e per la sua reputazione oltre che poco etico. Aderire a un femminismo di facciata, dando l’illusione di essere impegnati senza poi affrontare le questioni di fondo, alla lunga è una strategia che viene smascherata e i danni sono pesanti. Se la spinta a farsi carico di queste istanze può provenire dall’esterno, ogni azienda deve impegnarsi concretamente e fare la sua parte con azioni tangibili e misurabili, chiedendosi se il messaggio che veicola sia coerente con i valori e il credo della marca e non circoscritto a date o al “mese della prevenzione”. Le campagne dalle parole devono passare ai fatti ed essere supportate da politiche aziendali a sostegno di quelle stesse cause. Per citare The Breasties - l'organizzazione no-profit che crea comunità per la community legata dal cancro al seno ‘Pink is not the problem. The problem is Pinkwashing’’.
Altri esempi: Nel 2011 i Fiat Studios americani hanno lanciato la Fiat 500 Pink Ribbon Edition, senza tener conto che i gas di scarico costituiscono una delle principali cause dell’insorgenza dei tumori.
I tranelli della comunicazione “rosa" possono presentarsi in vario modo e riguardare certe sottigliezze che poi tanto sottili non sono: per sensibilizzare l’opinione pubblica contro il cancro al seno, moltissimi brand danno una mano di rosa ai loro prodotti e donano una parte del ricavato alle associazioni che si battono contro questo tipo di cancro. Ma suona strano, molto strano, che lo facciano anche Kentucky Fried Chicken colorando i suoi secchielli di pollo fritto, non propriamente un cibo considerato sano, o Mike’s Hard Lemonade, che ogni ottobre vende la sua limonata alcolica in versione pink e in 15 anni ha donato 1 milione di dollari a Breast Cancer Research Foundation (BCRF).
Molti birrifici e piccoli produttori di vino partecipano all’onda rosa. Lo fa, per esempio, Sutter Home, che si impegna a versare 1 $ alla National Breast Cancer Foundation per ogni selfie con un bicchiere del suo vino postato su Instagram, non proprio un esempio virtuoso giacché incentivare il consumo di vino e alcool in genere non è propriamente una buona. Il gruppo di vigilanza Alcohol Justice sottolinea come diverse aziende continuino a raccogliere fondi per le organizzazioni contro il cancro al seno utilizzando proprio l'alcol, nonostante questa pratica sia molto criticata e da lungo tempo.