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Morto per trasfusione sangue infetto, Ministero condannato

Epatite C e poi cirrosi: risarcimento milionario per la famiglia

Redazione Ansa

(ANSA) - NAPOLI, 20 MAR - Aveva 47 anni, D.L. , quando, nel 1985, fu sottoposto a una trasfusione di sangue al centro traumatologico ortopedico (CTO) di Napoli a causa di una frattura al femore. Quindici anni dopo scoprì di essere affetto dal virus dell'epatite C, fino ad arrivare alla morte, dopo atroci sofferenze, nel giugno del 2015.
    Per i familiari l'epatite C sarebbe stata causata da una sacca di sangue infetto. Una tesi accolta ora dalla sezione distaccata di Casoria del tribunale di Napoli, che con una recente sentenza ha condannato il Ministero della Salute al pagamento di oltre 171mila euro alla moglie dell'uomo (che all'epoca del decesso aveva 77 anni) e i quattro figli della coppia (che sempre nel 2018 avevano un'età compresa tra dai 51 ai 43 anni), oltre ad altri 195mila euro quale danno biologico terminale e danno catastrofale.
    Più di un milione di euro, oltre alle spese di interesse, a quelle relative alle competenze professionali del legale che ha seguito la vicenda (l'avvocato Piervittorio Tione) e per il consulente tecnico d'ufficio.
    La storia che riguarda D. L., cittadino di Mugnano di Napoli, parte dal ricoverato per una frattura al femore, per la quale fu sottoposto ad una trasfusione di sangue nel 1985 presso il CTO, sangue rivelatasi poi - secondo la tesi del tribunale - infettato dal virus dell'epatite C.
    Nel 2000 D.L. scopre di avere sviluppato il virus epatico, per morire all'età di 77 anni a seguito di complicanze collegate alla cirrosi epatica.
    "I familiari - spiega il loro legale, Piervittorio Tione - hanno deciso di adire il tribunale partenopeo per ottenere la condanna del Dicastero della Sanità al pagamento di un risarcimento sotto un duplice profilo: per il cosiddetto danno 'iure hereditario" (e cioè i danni fisici e morali che spettavano al soggetto trasfuso e poi trasferiti, in virtù della sua morte, agli eredi) e per il cosiddetto danno 'iure proprio', cioè danno morale (non patrimoniale) che spetta ai congiunti più stretti (coniuge e figli) che vedono finire in modo traumatico la relazione con il proprio caro". (ANSA).
   

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