Due anni per la diagnosi, pochi riferimenti per le terapie, poca assistenza domiciliare e caregiver sempre più soli nella cura dei congiunti. È questo il ritratto dell'Alzheimer in Italia secondo il rapporto 'L'impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer dopo la pandemia da Covid-19', realizzato dal Censis in collaborazione con l'Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (Aima). Il rapporto arriva a 25 anni da una precedente rilevazione e riscontra ben pochi miglioramenti, se non, addirittura, passi indietro nell'assistenza.
Negli anni i tempi per diagnosticare la malattia sono leggermente aumentati, passando da una media di 1,8 anni nel 2015 a 2 anni nel 2023. L'età media delle persone affette da Alzheimer e dei caregiver si è invece abbassata, aggravando le ripercussioni della malattia e dell'assistenza sulla vita sociale e lavorativa.
Per quel che riguarda l'assistenza pubblica, appena il 36,2% del campione coinvolto nell'indagine la giudica positiva. Il 29,8%, inoltre, segnala un peggioramento della qualità dei servizi dopo la pandemia. Restano inoltre forti differenze territoriali: al Nord è preso in carico da un Centro per i disturbi cognitivi e le demenze il 48,2% dei pazienti rispetto a circa un terzo di quelli che vivono al Centro ed al Sud.
Nel tempo, inoltre, non si notano cambiamenti nei modelli di assistenza che - segnala il rapporto - di fatto sono basati su un'ampia delega alle famiglie, su cui la malattia ha un profondo impatto: basti pensare in oltre la metà dei casi sono segnalate tensioni tra i familiari. "È grande l'amarezza nel constatare che la condizione delle famiglie colpite dalla malattia di Alzheimer continua a essere drammatica», ha dichiarato la presidente di Aima Patrizia Spadin. "Ancora una volta il Paese si è arenato sui pannicelli caldi. Politica e istituzioni non riescono a intervenire adeguatamente".
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