E' colpa di un interruttore molecolare in tilt nel cervello, se il trattamento con alcuni farmaci antipsicotici per la schizofrenia può causare disturbi del movimento come tremori, rallentamento e rigidità: spegnerlo è possibile, come dimostra uno studio condotto sui topi dal gruppo di ricerca italo-americano nato della collaborazione tra lo Scripps Research Institute della Florida, il Ceinge-Biotecnologie Avanzate di Napoli e l'Università degli Studi della Campania 'Vanvitelli'. I risultati, pubblicati sulla rivista Translational Psychiatry, potranno contribuire allo sviluppo di terapie innovative per ridurre gli effetti collaterali degli antipsicotici.
"Questi farmaci sono estremamente efficaci nel controllare deliri e allucinazioni che impediscono una vita normale ai pazienti affetti da psicosi", sottolinea Andrea De Bartolomeis, direttore dell'Unità Operativa Complessa di Psichiatria e Psicologia del Policlinico Universitario Federico II di Napoli. "I loro effetti avversi sono generalmente tollerati, ma in una percentuale non trascurabile di pazienti risultano così invalidanti da indurre a interrompere la cura, con conseguenze molto pesanti". Per cercare una soluzione al problema, i ricercatori guidati da Srinivasa Subramanian e Alessandro Usiello hanno esaminato nel topo la 'centralina' del cervello (nota come 'corpo striato') dove si innescano i disturbi motori indotti dagli antipsicotici: hanno così trovato che a causare il cortocircuito è l'iperattività di un interruttore molecolare (l'enzima mTor) che va in tilt. Per disattivarlo, i ricercatori hanno usato con successo un farmaco (chiamato 'rapamicina') diffusamente utilizzato contro il rigetto degli organi trapiantati.
"Si tratta di una scoperta importante, perché ci svela un meccanismo finora sconosciuto che lega i disturbi psichici a quelli motori - spiega De Bartolomeis - e perché identifica un nuovo bersaglio che possiamo colpire per migliorare la tollerabilità delle terapie antipsicotiche".
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