Le sale della sofferenza, del distacco dalle cose care per bisogno, per una guerra, una malattia. Gli spazi dell'avidità, della ricerca effimera della ricchezza ottenuta avuta o persa ai tavoli da gioco, con un investimento sbagliato sull'onda dell'immaterialità digitale.
L'artista svizzero, protagonista nel corso di una passata Biennale d'Arte della realizzazione di una installazione-moschea all'interno di una chiesa sconsacrata, è partito dalla storia stessa del Palazzo, sede del Monte di Pietà dal 1834 al 1969, per dare vita a una sorta di "wunderkammer" dell'anima e del dolore. Questo, attraverso una sequenza, apparentemente casuale, di tracce attinenti alla realtà di vita quotidiana, senza distinzioni tra ricchi e poveri, unite dal passaggio di questi oggetti da dimensioni "casalinghe" a scaffali "collettivi".
Migliaia di elementi tenuti insieme dal concetto di "debito". A pianoterra, dopo la stanza dell'accumulatore seriale - uno scantinato dove c'è di tutto alla rinfusa - il percorso espositivo prevede uno sviluppo quasi storico-documentaristico riguardo alle caratteristiche e funzioni del Monte di Pietà, con i documenti o le sedie per le aste. Al mezzanino si entra in una dimensione più cupa. Ci sono le stanze con i tavoli da gioco, della dea bendata che non fa differenze tra chi ha e chi tenta la sorte. Letti, tavole imbandite i resti di notti forse passate insonni. Subito dopo, si entra nel contemporaneo: irrompono il digitale, la moneta elettronica, i canali social: il mondo in sostanza dove sono labili i confini tra realtà ed apparenza. Al primo piano del palazzo, il salone centrale è una sequenza di oggetti di vario genere. Ci sono bambole, chitarre, mappamondi, moto, manifesti compro-oro, lavatrici, canoe, reperti bellici, remi, mappe, libri, abiti, brocche per l'acqua o il vino, quadri, monete e tanto altro. Inutile cercare didascalie o tentare di tenere a mente la massa quanto presente. Ci sono dipinti di scarsissimo valore mischiati a un Tiziano, un Warhol.
C'è l'opera concepita da Bucher come una valigia contenente diamanti concepiti in laboratorio, The diamond Maker.
I diamanti - spiega una nota - sono il risultato di un processo fisico e simbolico di distruzione e trasformazione dell'intero corpus di opere in possesso dell'artista, comprese quelle dell'infanzia o non ancora realizzate. A ogni visitatore sembra essere lasciato il compito di tracciare una linea di possibile separazione tra ricchezza reale e artificiale. A chi si aggira tra i banchi in legno ricostruiti del vecchio Monte o tra le scrivanie con computer, riviste, libri, appunti, che parlano di cose reali legate a opere o altri beni, è lasciato l'onere e il piacere di interrogarsi sui valori della proprietà, della finanza.
Monte di Pietà, le sale del dolore e dell'avidità umana
Alla Fondazione Prada Venezia progetto di Christoph Buchel