ROVIGO - Ladro di immagini di qualità straordinaria, artista prima che fotografo, ma anche personaggio schivo ed provocatorio al punto di farsi intervistare restando nell' ombra, di spalle o coprendosi il volto con la mano pur di restare anonimo. C'è questo e molto altro di Henri Cartier-Bresson nella prima grande mostra sul suo rapporto quarantennale con l' Italia che Palazzo Roverella, a Rovigo, propone dal 28 settembre al 25 gennaio 2025.
Le 160 immagini in bianco e nero scelte da Clément Cheroux, direttore della Fondazione intitolata al maestro, e da Walter Guadagnini, direttore artistico di Camera, documentano i viaggi a più riprese compiuti nel Belpaese dal gigante della fotografia dal 1932 al 1973, quando decise di smettere e tornare all' antico amore per il disegno. Il racconto sulle trasformazioni di una nazione, e in particolare del suo Sud, uscita a pezzi dal Fascismo e dal disastro della guerra per avviarsi verso un boom economico fatto anche di contrasti e contraddizioni, procede di pari passo con l' evoluzione artistica di Cartier-Bresson. Aveva solo 24 anni e le idee confuse sul futuro il giovane Henri quando, lasciata la pittura folgorato da uno scatto di Martin Munkacsi di tre ragazzini che corrono verso un'onda, ebbe il suo primo incontro ravvicinato con l' Italia. Insieme con l'amico fraterno André Pieyre de Mandiargues e la fidanzata Leonor Fini, tocca Trieste, Firenze, Livorno, Siena, Napoli e Salerno. Il fotografo ha comprato da poco una Leica con cui realizza alcuni tra i suoi capolavori cogliendo i luoghi, lo spazio tra luce e ombra, linee e volumi, senza riferimenti alla vita durante il Regime. La vena surrealista delle frequentazioni parigine che sarebbe riaffiorata anche in seguito, traspare nel primo dei suoi rarissimi autoritratti, un piede che spunta dalla gamba dei pantaloni. ''E fondamentalmente disinteressato alla società ma cerca nel mondo una serie di equilibri, visioni e logiche pittoriche'', osserva Guadagnini. Tornando nel 1951 - già famoso per la mostra al Moma a New York e per la la Agenzia Magnum creata nel 1947 con Capa, Seymour, Rodger e Vandivert - viaggia tra Roma, l' Abruzzo e la Lucania puntando sulla società e le persone in reportage per le grandi riviste internazionali, Life, Vogue, Harper's Bazar. Ma è a Scanno e a Matera che sforna i suoi lavori di maggior impatto, le donne in nero durante il Natale o l' assegnazione delle terre nel Metapontino immortalando un contadino che ringrazia con il saluto fascista. Nella capitale Cartier Bresson ritrae la vita quotidiana, dove ''tutto succede nella piazza'', e fotografa Carlo Levi, cantore di quel sud contadino e arretrato conosciuto dalla platea internazionale grazie a Cristo si è fermato a Eboli che il maestro francese come altri colleghi italiani puntavano a tradurre in immagini. Vi torna nel 1958-59 documentando la proclamazione di Giovanni XXIII e i cambiamenti di una città che fa i conti con la periferia che si estende - ecco Pasolini a colloquio con i ragazzini - e con gli ingorghi del traffico.
Dopo le commissioni industriali di Olivetti sullo stabilimento di Pozzuoli e l' occhio sulla modernizzazione della Basilicata, nel 1971-1973 nell' ultimo viaggio punta ancora su Venezia che non è più i turisti in gondola del passato ma i lavoratori che manifestano e a Posillipo ritrae una coppia che guarda un panorama di fabbriche.
''Henri Cartier Bresson ha la capacità di unire una impostazione pittorica con lo sfruttamento delle possibilità offerte dalla fotografia - osserva Guadagnini -. Non costruiva l' immagine ma aspettava il momento cercando di non farsi vedere''.
''L' Italia è il paese che Cartier Bresson ha più fotografato insieme con gli Stati Uniti e l'India. E' incomprensibile che non si sia mai stata fatta prima una esposizione su questo tema'' aggiunge Chéroux ricordando che il maestro nel 1946 espose al Moma, nel 1952 a Londra, Firenze e in Giappone, pubblicò il libro ''Immages à la sauvette'' (Scatti rubati) con copertina disegnata da Matisse e nel espose 1955 al Louvre.
''Nessun altro fotografo dell' epoca poteva pretendere un simile riconoscimento internazionale, Questo lo rende, soprattutto nella seconda metà del secolo, il più importante. Fin dall' inizio si considera un artista e non un fotogiornalista, e anche se nella seconda fase lo diventerà fondando l'Agenzia Magnum, affronta la pratica fotografica sempre con un altissima esigenza artistica che si traduce nella qualità formale, nella profondità e nel rigore intellettuale''. A chiudere controcorrente la bella mostra di Palazzo Roverella è il documentario Rai del 1964 con testo di Giorgio Bocca che di Cartier-Bresson stronca ''l' enorme ambiguità, il fotografo anonimo che non vuole essere fotografato e gioca a fare il narciso e l' esibizionista''. Lui ribatte: 'Parliamo di tutto tranne che di me. Il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l' anonimato. E' un mestiere che si esercita a bruciapelo, prendendo la gente alla sprovvista''. Verità, finzione, inclinazione caratteriale o snobismo che sia, l'artista definito a ragione l' ''occhio del secolo'' continua a brillare per aver inteso la fotografia come un modo di vivere che si realizza ponendo ''la mente, l' occhio e il cuore sulla stessa linea di mira''. (ANSA).
Un' Italia che cambia, così la raccontò Cartier-Bresson
A Rovigo il lungo legame del maestro dello scatto col Belpaese