Il loro lavoro scatta con la scoperta di un caso positivo al coronavirus: il delicato compito, quasi da detective, di ricostruire tutte le relazioni del contagiato, dall'ambiente lavorativo a quello scolastico o familiare, con lo scopo di interrompere la catena di potenziale trasmissione del Sars-Cov2. Sono i "contact tracer", operatori dei Dipartimenti di Salute pubblica delle Aziende Usl che in questi mesi non si sono mai fermati e anzi ora, con l'aumentare dei casi di virus, lavorano già ben oltre i ritmi di marzo e della primavera.
"A marzo era la fase della disperazione - ha raccontato all'ANSA Maria Rosa Fiorentino, assistente sanitaria a Bologna - con situazioni difficilissime di alcune persone che non sapevano nemmeno dove erano ricoverati i parenti. In estate siamo stati percepiti come 'disturbatori' delle vacanze: alcuni evitavano di risponderci per timore di non partire. Ora siamo di nuovo in affanno per l'alto numero di casi: fino a 20 giorni fa riuscivamo a chiamare le persone in pochissimo tempo e a mettere tutti in quarantena, ora siamo in ritardo perché sono veramente tanti" e "i ritmi" sono tornati quelli di marzo.
Dopo il lockdown infatti sono ripresi i viaggi, lo sport, le uscite e i momenti di conviviali. Ricostruire, oggi, la rete di contatti è ancora più difficile, spiegano i tracer: dopo un caso accertato, iniziano i contatti telefonici, le domande mirate e l'intreccio di informazioni per mettere a punto la rete e avere tutti gli elementi utili. "Le persone vanno ovunque - ha aggiunto Fiorentino, che lavora a Bologna in collaborazione con una equipe di una ventina di persone, inclusi medici e infermieri - Abbiamo avuto il periodo dell'estrema emergenza, ma c'era il lockdown, erano tutti emotivamente più coinvolti ed erano a casa. Oggi invece ci troviamo con una mole di lavoro di nuovo grande, grande".
Un ambito che rende più complicata l'attività di contact tracing è la scuola, come ha spiegato all'ANSA Rebecca Giazzi, assistente sanitaria a Piacenza. Fu lei la sera del 21 febbraio scorso a eseguire il primo tampone sull'infermiere dell'Ospedale di Codogno che aveva seguito il 'paziente uno', Mattia. "Oggi - ha detto - abbiamo tantissimi positivi, di questi 20 sono bambini in età scolare. Le scuole portano a tanti contatti: oltre ai bambini o ai ragazzi, ci sono famiglie, insegnanti, famiglie degli insegnanti e del personale.
Se il bambino è positivo i genitori sono collaborativi, molto spesso ci ringraziano. Il problema sono i genitori dei compagni di classe perché spesso fanno polemica: non sanno dove lasciare i bambini, non vogliono far fare i tamponi". Da parte delle persone che vengono contattate, ha rivelato Giazzi, "non c'è sempre collaborazione. Non è facile comunicare con loro: alcune accettano la situazione, prendono atto della quarantena, altre mettono in dubbio il tuo lavoro. Alcune volte veniamo insultati, ma andiamo avanti. Le indagini epidemiologiche sono fondamentali".
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