WASHINGTON - "Abbiamo la speranza di concludere i negoziati del Ttip entro il mandato presidenziale di Obama" hanno dichiarato la scorsa settimana i due negoziatori capo, lo spagnolo Ignacio Bercero e l'americano Dan Mullaney, al termine del 10mo round negoziale a Bruxelles. Ma il loro ottimismo non sembra condiviso, almeno sul lato americano dell'Atlantico, da chi conosce la macchina politica Usa. Il mega-trattato che Ue e Usa stanno negoziando da oltre due anni rischia tempi molto più lunghi e, malgrado la recente accelerazione, secondo molti esperti è ancora ad uno stadio quasi preliminare, con un 30% del complicato lavoro di raccordo fra i due diversi regolamenti e punti di vista già compiuto, solo 11 testi specifici "integrati" e molti nodi difficile da sciogliere ancora non affrontati. E il suo iter potrebbe facilmente imbrigliarsi nelle pastoie della campagna elettorale per la Casa Bianca del 2016.
Giocano contro considerazioni di mero profilo elettorale, ma anche geopolitiche. Per Obama, che nel suo secondo mandato ha raccolto clamorosi successi, fra cui il trattato nucleare con l'Iran, che quasi ne eclissano il primo, un trattato della portata del Ttip sarebbe il coronamento finale. Ma, spiega Fred Bergsten, direttore emerito dell'influente think-tank Peterson Center for International Economics di Washington, "i trattati di libero scambio sono basati sulla politica estera, sulla strategia geopolitica". Bergsten, ufficiosamente accreditato come l'uomo che ha ispirato in Obama il Ttip e il trattato Usa-Pacifico (Tpp), spiega che per il presidente è prioritario quest'ultimo, che è in cottura da cinque anni e può arrivare in dirittura d'arrivo entro l'anno. Questo perché la maggiore preoccupazione strategica Usa è al momento il contenimento della Cina, dalla quale non vuole farsi dettare agenda e regole del futuro commercio mondiale. Negoziato con 11 Paesi che affacciano sul Pacifico (fra cui Malaysia, Vietnam e Giappone), il Tpp è stato finora snobbato da Pechino, che, dice l'esperto, ora, sentendosi 'circondata', mostra interesse, ma potrebbe rimanerne esclusa.
Se Obama riesce a concludere il Tpp entro l'anno, poi l'attenzione politica si sposterebbe verso il Ttip, ma nel 2016 la politica Usa entrerà in subbuglio con le primarie e la campagna presidenziale, e nel Congresso Usa, a cui è demandato di votare sì o no al testo finale dopo un esame di due mesi, diventa cruciale l'atteggiamento dei parlamentari. E i repubblicani, che controllano entrambi i rami del parlamento e che finora hanno sostenuto i trattati di libero commercio - è grazie al loro voto, anche di alcuni attuali candidati alla Casa Bianca, che l'Amministrazione ha ottenuto la delega a condurre il negoziato (il 'fast-track') - potrebbero tornare a non voler concedere più nulla a Obama. Il presidente può sempre ricorrere al veto nel caso di un no finale (il Congresso può superarlo a qual punto solo con un 'no' ribadito dai 2 terzi delle due camere), ma, viste anche le perplessità di molti democratici, fra cui la stessa Hillary Clinton, che strizza l'occhio alla sinistra del suo partito, non avrebbe vita facile.
Concorda anche Steven Billet, consulente della George Washington University, secondo cui in un panorama politico quanto mai polarizzato come quello statunitense attuale, dà al Ttip meno del 50% di possibilità di vedere la luce con Obama. E gli americani, se pure in maggioranza sono favorevoli in via di principio ai trattati di libero scambio, hanno in realtà paura della disoccupazione, temono che con Tpp e Ttip si ripeta quanto accaduto col Nafta (il trattato commerciale con Canada e Messico 1993), che prometteva 200.000 nuovi posti di lavoro e invece ne ha sacrificati 70.000, ricorda Billet. E si teme, come in Europa, uno strapotere delle grandi imprese, che sono prevalenti negli Advisory Committees, le commissioni consultive che, settore per settore, seppure svuotate da Obama dai lobbisti professionisti, accompagnano l'attività dei negoziatori.
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