Friuli Venezia Giulia

Sparatoria centro Trieste: esperto, strascichi faide da clan

Chi può scappa da Kosovo senza voltarsi, buco nero ex Jugoslavia

Redazione Ansa

(ANSA) - TRIESTE, 07 AGO - Gli scontri verificatisi a Trieste tra giovani kosovari sono lo "strascico di faide private tra clan famigliari contrapposti, regolate da rapporti di stampo mafioso, in molti casi in lotta per assicurarsi la leadership nel monopolio dell'edilizia cittadina. Quando parliamo di integrazione e di (micro)delinquenza bisogna dunque guardare più a fondo dei singoli episodi di cronaca locale. Dobbiamo invece fare i conti con un problema strutturale più ampio, che ci mostra più chiaramente le cause delle frizioni che affiorano sulla superficie della vita triestina". A spiegarlo è Riccardo Roschetti insegnante, impegnato nella mappatura dell' immigrazione minorile kosovara in Fvg e autore di un libro (La masnada delle aquile; Infinito) sui giovani kosovari a Trieste.
    Per Roschetti, il Kosovo è "il buco nero dell'ex-Jugoslavia, nazione fragile" da cui chi può scappa senza guardarsi indietro", un paese animato da "un disperato idealismo": Ma "non sono i kosovari a essere antisociali incapaci di trovare un equilibrio e una serenità con le regole di un paese altro. La responsabilità va semmai cercata nelle sclerotizzate dinamiche di potere familistico perpetuate qui come e peggio che in Kosovo".
    L'esperto parla di "giovani in una prigione autoreferenziale in cui soffocano" per i quali occorrerebbe "creare percorsi legali per eliminare il traffico umano" e "offrire la possibilità (come fatto con ragazzi in fuga dall'Ucraina) di concludere i percorsi scolastici lasciati in sospeso, per aumentare le opportunità di affermazione", investire "sulla alfabetizzazione, per agevolare l'inserimento fornendo strumenti idonei, linguistici in primis, per orientarsi e non riconoscersi più come estranei".
    Quasi tutti i giovani kosovari "si stabiliscono a Trieste dalla minore età e a 18 anni si inseriscono nelle reti famigliari e amicali di altri connazionali, passati prima di loro per lo stesso assistenzialismo. Per alterare le inevitabili ricadute nei clan locali bisogna prima di tutto investire sugli interventi qualitativi nelle comunità di accoglienza", dove spesso "mancanza di risorse economiche e assenza di un'adeguata preparazione del personale", fa del sistema d'accoglienza un 'sorvegliare e punire' anziché una organizzazione che si occupa dei loro problemi socio-culturali che affrontano nel processo d'integrazione". Va considerato poi che, ad esempio, "tutti gli immigrati kosovari di nuova generazione a Trieste sono adolescenti e maschi, "auto-ghettizzati in appartamenti sovraffollati, costretti senza molta alternativa a ritmi di lavoro usuranti nelle ditte di edilizia come moderni schiavi" slegati "dal tessuto sociale italiano, poco o per niente alfabetizzati, affamati di sogni di gloria da realizzare nella maniera più rapida possibile, aggrappati al cordone ombelicale del lacerato paese natale e ai debiti contratti per partire".
    Giovani che amano "esibire con esasperato nazionalismo il loro sentirsi sqhiptare (albanesi)" con "una feroce ansia di affermazione che diventa rabbia contro le istituzioni e chiunque si interponga tra la loro smania di successo e il feroce attaccamento a un'identità albanese a lungo negata dal dominatore serbo". Non è, ovviamente, "violenza connaturata" ma "strategie culturali in cui la violenza assume funzione risolutrice". Così, il codice giuridico e sociale medievale del Kanun, la "vendetta di sangue", non vuole "alimentare i conflitti ma sedarli", ma è "un diktat identitario con cui è difficile scendere a patti". (ANSA).
   

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