Lazio

La solitudine senza voce delle detenute di Rebibbia

Il distacco dai figli è causa di più profonda sofferenza

Redazione Ansa

(di Francesco De Filippo) (ANSA) - TRIESTE, 05 APR - MAURO CORSO (a cura di) 'SALVATE DAI PESCI' (Castelvecchi, pp. 114 - 15,00 euro) - Spesso le madri detenute non riescono a raccontare ai figli la ragione della loro assenza, anche quando questa si prolunga per anni.
    Non riescono a parlare del carcere preferendo addirittura trasformare la realtà in modo ambiguo e non salutare per il rapporto con i figli. Non venali bugie ma omissioni che provocano enormi problemi relazionali e familiari. Per superare questo ostacolo Ri-scatti ODV dall'ottobre 2022 per 5 mesi realizzò un laboratorio nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, condotto dall'attrice Michela Cesaretta Salvi.
    Da quel laboratorio è nato anche un libro, "Salvate dai pesci", delicato, molto rispettoso, in cui interventi episodici delle detenute sono alternati a brevi spiegazioni delle autrici, e il cui titolo è dovuto alla detenuta Floriselda che raccontava una favola del suo paese, il Guatemala. Dietro le sbarre si soffre la carcerite, la detenzione cioè è malattia. Una sofferenza che per tante è quasi una sorpresa e che può portare all'autolesionismo: a Fadila, bosniaca, i figli che non vede dal 2008 le mancavano in modo tanto forte che ammette: "Mangiavo l'imbottitura dei materassi". Neanche Meiza vede i figli, da quasi dieci anni.
    Strana vita quella del carcere: nessuna detenuta parla dei reati che ha commesso e le colpe sfumano. Non è fuga dalle responsabilità: ciò che è avvenuto, che è stato fatto rientra in una gamma di azioni quasi inevitabili, eventi inderogabili che fanno parte di un percorso di vita. Molte non lavorano né si dedicano ad alcuna attività, vivono in apnea non facendo niente per tutto il giorno.
    E non ci sono parole in cella: "Sul quadrante dell'orologio delle donne in carcere il tempo è scandito da frasi sfuggite di gola", annotano le operatrici che hanno scritto il libro.
    Locuzioni smozzicate, incomprensibili che si prestano a incomprensioni e a più profondi silenzi. In questo senso il laboratorio ha una funzione liberatoria: in quella sede riesce a esprimersi anche chi non parla. Il laboratorio ha un'etica: le detenute non si svelano, parla chi e quando vuole, l'accesso è libero come l'uscita. Regole sacre per un laboratorio appunto, ma che applicate a un libro lo trasformano in atti di convegno, in manuale. Aiuta il cortometraggio che è stato girato sul laboratorio (si accede con un qr), altrimenti le sole pagine sono una carrellata di senza volti e quella stessa etica diventa una nuova prigione, ma per il lettore, che è privato di riferimenti: non vede i volti, non entra mai in una storia, intercetta passivamente messaggi da un luogo ignoto e deve costruirsi un mondo da poche frasi, decontestualizzate, di donne che compaiono una volta, due, poi scompaiono. Eppure Floriselda scrive una poesia molto bella durante il laboratorio, Maida sostiene che "il carcere è un piccolo mondo in miniatura, tanto ristretto materialmente, fisicamente, tanto emotivamente, sentimentalmente ampliato". Patience, nigeriana, sappiamo che canta molto bene; Gioia dice che è difficilissimo smettere di pensare in carcere. (ANSA).
   

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