È il 4 settembre 1940 quando Antonio Cipolla, padre dell’autrice, si arruola nell’esercito sperando di evitare la coscrizione ai due fratelli maggiori. Nonostante fosse il più piccolo è proprio lui che affronta questo sacrificio, e se decide di farlo non è per fervente patriottismo o per ideologia (seppure la patria sia un suo indissolubile valore), non combatte la guerra per spirito d’avventura né per una vocazione da soldato: no, ciò che lo spinge ad arruolarsi è proprio il pensiero di poter risparmiare quel destino ai suoi cari “famigliari amatissimi” come lui stesso li definisce nelle lettere che manda loro, allegando anche delle fotografie che si fa scattare spesso, per informarli del suo stato di salute e chiedere loro notizie. Lettere e fotografie a lungo conservate, che Enza Cipolla ha deciso di raccogliere nella sua opera, “A mio padre”, pubblicata dal Gruppo Albatros il Filo.
La memoria di quegli anni, seppur così vicini, risulta inesorabilmente sbiadita a distanza di quasi un secolo e rimane davvero vivida solamente nella mente di chi li ha vissuti. Forse, ogni volta che una storia viene raccontata e trasmessa alle nuove generazioni perde un po’ del suo colore, si percepisce sempre meno vicina fino quasi a scordarsi di ciò che realmente fu. La storia ci insegna a non dimenticare, ma quanto davvero possiamo ricordare ciò che non abbiamo vissuto sulla nostra pelle? Quanto potranno ricordarsene le nuove generazioni, man mano che la storia stessa si allontana?
Non bastano le lezioni a scuola né le nozioni che si possono trovare su internet per tramandare davvero questo tipo di memoria: perché assuma nitidezza è necessaria una testimonianza diretta, dagli occhi di chi quella storia l’ha vissuta. Perché non rimanga sepolta tra le pagine dei libri scolastici c’è bisogno di capire cosa significasse, non soltanto studiarne le cause e gli effetti.
È proprio questo il valore di “A mio padre”, che non vuole raccontare “la” storia, ma “una” storia soltanto: quella di Antonio Cipolla, tramite immagini e parole che lui stesso ha dedicato alla sua famiglia. È così che facciamo conoscenza con un ragazzo del 1920 che, appena ventenne, si arruola nell’esercito italiano come volontario e, dopo l’addestramento, intraprende la campagna d’Africa. Lo conosciamo tramite le sue stesse parole, come se fosse Antonio in persona a presentarsi, raccontandosi con la maggior sincerità che ci si può aspettare da qualcuno, ossia la sincerità con cui lui parla alla sua famiglia lontana, tradita soltanto nei momenti in cui non voleva che si preoccupassero per lui. Il pensiero per i suoi “famigliari amatissimi” infatti lo accompagna costantemente, guidando la sua penna ogni volta che trova una un pezzo di carta o cartone su cui scrivere quando la carta da lettere non gli è accessibile: con quelle sue parole, sempre indirizzate ai genitori, ai fratelli e le sorelle, rivela un affetto smisurato per i suoi cari, tanto grande da spingerlo a combattere la guerra al posto dei suoi fratelli, tanto intenso da suscitare in lui un’evidente ansia di ricevere notizie a sua volta oltre che il perpetuo bisogno di rassicurare i famigliari con le sue lettere.
“Famigliari Amatissimi. Finalmente sono riuscito ad avere un pezzo di questa specie di carta contenendo prima tabacco, ed ora a forma di letterina vi do miei notizie. Fisicamente sto bene, fino ad oggi grazia in Dio. Il mio pensiero è rivolto a voi tutti, specialmente in questi giorni di festa trascorsi molto lontano da voi, bensì non ho da lamentarmi rispetto al passato che criticamente è stato trascorso, comunque non state in pensiero di me, spero che qualcuna dei dieci cartoline che ho scritto avrà raggiunta destinazione. Io ancora non ho avuto riscontro, questa attesa spero che non sia lunga, credo che 10 mesi bastano senza aver notizie, e sono preoccupato specie per i miei fratelli e Biagio. Scrivetemi con qualsiasi mezzo e a doppia lettera in modo da inviare la risposta. Con la speranza che la presente vi giunga trovandovi a tutti bene vi invio affettuosità e un ricco bacio”, scrive Antonio su una busta di tabacco, con vivida emotività si rivolge alla sua famiglia e dimostra di portarla sempre nel cuore.
La storia che racconta nel mosaico delle sue testimonianze è quella di un soldato semplice che nel 1942 viene promosso aviere scelto marconista, assegnato all’aeroporto di Tripoli, poi Derna e Sorman, sempre in Libia, successivamente in Egitto e infine al Regio Aeroporto di Capo Bon in Tunisia. Contrae l’enterocolite amebica che gli verrà riconosciuta come causa di invalidità di guerra.
Poi, nel maggio del 1943, viene fatto prigioniero nei campi francesi di Le Kreider e Aïn el Hadjar, dove trascorre due anni e mezzo sicuramente spietati, nonostante nelle sue lettere non lasci evincere niente che possa preoccupare i suoi cari e anzi, cerca sempre di rassicurarli. Anche durante il suo periodo di prigionia, Antonio non ha mai smesso di pensare alla sua famiglia, lo dimostra il fatto che anche allora cercasse un qualsiasi pezzo di carta per comunicare con la sua famiglia, informando i genitori, i fratelli e le sorelle della sua “ottima salute” e chiedendogli una risposta per assicurarsi che stiano bene, facendo emergere l’evidente bisogno di sapere che siano al sicuro e che i fratelli e il cognato fossero a casa con la famiglia, senza però mai chiederlo direttamente per via della censura a cui doveva prestare attenzione. È un medico a salvarlo dalla prigionia, testimoniando le sue precarie condizioni di salute (nonostante la “salute ottima” che ha sempre comunicato ai suoi cari, che aveva il solo scopo di tranquillizzarli). Nel dicembre del 1945 Antonio torna a casa, dai suoi famigliari amatissimi: pesa appena quaranta chili e porta i segni della guerra e della prigionia sulla pelle.
Conservando e pubblicando queste testimonianze, Enza Cipolla, figlia di Antonio, condivide con i suoi lettori una storia di grande valore, che non racconta le atrocità della guerra con distacco accademico ma invece ci rivela la vita di un uomo che è stato disposto a sacrificarsi in nome di un raro ed encomiabile altruismo, ci mostra le sue conquiste e i suoi risultati, i suoi sorrisi immortalati nelle vecchie fotografie, lasciandoci però immaginare quanto fosse amaro il loro sapore, perché quei sorrisi che dedicava alla famiglia erano distanti da loro a cui sarebbero arrivate soltanto le immagini, e ogni risultato non aveva valore: perché il suo unico pensiero era quello di tornare a casa e abbracciare i suoi affetti. Si può però soltanto intuire il suo dolore, perché Antonio non lo mostra mai, neanche durante gli anni di prigionia, perché non avrebbe mai voluto che la famiglia si preoccupasse, perciò ogni parola che proviene dalle lettere di quel periodo risulta struggente e nasconde un’intensità straordinaria.
Una finestra su un passato estremamente vivido che fornisce un prezioso insegnamento, che la stessa Enza Cipolla ci rivela nell’introduzione della sua opera.
“Volgendo lo sguardo al recente passato che ha fatto da sfondo alle vicende di mio padre, devo riconoscere che oggi è in atto un forte impegno per sviluppare nuove sensibilità, allora quasi del tutto assenti, rispetto a problematiche che indubbiamente toccano l’uomo, come per esempio il mondo animale e la natura in generale, la distribuzione equa delle risorse, la estensione a tutti della tutela dei diritti fondamentali e così via, ma credo che tutti gli sforzi che si possano compiere in quelle direzioni saranno vani, se, strada facendo, si andranno contemporaneamente perdendo quei valori che a fatica abbiamo consolidato nel corso dei millenni, primo fra tutti, la famiglia”.
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