Cultura

“Emergenze e controlli”, la cronicizzazione dello stato di emergenza secondo Paolo Becchi

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Mentre il mondo si è lasciato alle spalle il peggio della pandemia da Covid-19, rimane comunque un senso di vulnerabilità e precarietà a permeare la nostra vita quotidiana. Se da una parte i casi di contagio, ormai rari, evocano un ricordo quasi nostalgico, la realtà post-pandemica sembra essere ancora attraversata da un senso di emergenza che ha finito per cronicizzarsi, senza trovare una soluzione. Lo stato di allerta ha cambiato volto, trasferendosi da un tema all’altro senza soluzione di continuità: dalla guerra al cambiamento climatico, dai flussi migratori al debito pubblico, fino alla tanto stigmatizzata crisi dei valori. Paolo Becchi, nel suo ultimo libro “Emergenze e Controlli. Dalla pandemia alla carestia” (Albatros, 2024), affronta con lente critica la questione, domandandosi se il continuo stato di emergenza non stia lentamente erodendo la base stessa delle democrazie occidentali, sostituendo una normale vita civile con una sorta di perenne mobilitazione. In questo senso, si interroga sul concetto di “nuova normalità” e propone una lettura critica di come gli apparati statali sfruttino tali emergenze per consolidare un sistema di controllo sempre più esteso. 
Paolo Becchi, noto per le sue analisi pungenti e fuori dal coro, è professore ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università di Genova. Studioso della filosofia del diritto di Hegel e del diritto naturale moderno, nonché figura centrale nella diffusione del pensiero di Hans Jonas in Italia, oggi continua a offrire contributi significativi al dibattito pubblico italiano come editorialista per testate come Libero e Il Sole 24 Ore. “Emergenze e Controlli” prosegue il percorso già cominciato con “L’incubo di Foucault. La costruzione di un’emergenza sanitaria” (Lastaria, 2020) e continuato con “Kant col green pass. Dalla sorveglianza al controllo sociale” (Albatros, 2022) e offre un ventaglio di riflessioni che analizzano l’emergenza bellica, sanitaria, energetica, climatica e migratoria, insieme a tante altre dichiarate forme di emergenza sul piano sociale, politico e strettamente umano. 
Se la prima domanda di “Emergenze e controlli” è rivolta ai governi, la seconda – e forse la più sostanziale – è alla società: Becchi evidenzia infatti come, se da una parte i governi cercano di “garantire la sicurezza” talvolta al punto di strumentalizzarla, dall’altra la società cambia e si adatta facilmente a un susseguirsi di emergenze e controlli crescente e pervasivo. L’approccio dell’opera è complesso e per molti aspetti controcorrente, tuttavia alla base di questo saggio risiede la volontà di mettere in discussione le narrazioni dominanti e di stimolare un dibattito a più voci. Becchi stimola il lettore a considerare il costo sociale di ciò che è stato presentato come necessario e benefico, e a chiedersi fino a che punto sia lecito per una società civile accettare determinate restrizioni senza chiedere conto del perché e del come. 
Si rende necessario evidenziare, infatti, la differenza non sempre ovvia tra “emergenza” ed “eccezione”. Secondo Paolo Becchi, la normalizzazione dell’eccezione da parte dei governi ha dato vita a un controllo sistematico che pervade quasi ogni aspetto della vita dei cittadini. L’autore denuncia una nuova forma di governance, in cui l’emergenza, anziché rappresentare uno stato transitorio, diviene strumento stabile di potere. Un simile approccio, spiega Becchi, permette ai governi di giustificare misure straordinarie con il pretesto della sicurezza e del bene comune. La vera posta in gioco sarebbe dunque non tanto la salute o la stabilità, ma il progressivo consolidamento di un controllo sociale pervasivo che svilisce la libertà individuale. Becchi introduce il concetto, caro a Foucault, di “biopolitica” per descrivere la gestione del corpo e della vita del cittadino come una risorsa nelle mani del potere, sottomessa al governo del “corpo sociale”. I rischi si riverserebbero sulla democrazia stessa: se questa si convertisse in una macchina di controllo, l’individuo potrebbe essere ridotto a un semplice ingranaggio del sistema. 
L’analisi critica di Becchi si estende al concetto dei “valori occidentali”, soffermandosi sulle apparenti contraddizioni tra i principi dichiarati dalle democrazie occidentali e le loro pratiche effettive, specie nelle recenti crisi globali. Sotto la retorica dei diritti umani e della libertà, si celerebbe piuttosto un Occidente sempre più caratterizzato da un controllo repressivo diffuso. Un tempo baluardo dei diritti civili e della democrazie, oggi le azioni dei governi sembrerebbero virare verso altre direzioni. La domanda di Becchi apre dunque una riflessione sostanziale: stiamo davvero difendendo valori autentici o semplicemente una proiezione idealizzata dell’Occidente?
Rivolgendo una critica implicita al pensiero di Habermas, Becchi si confronta con il tema della cosiddetta “solidarietà imposta”: se per il filosofo tedesco in situazioni critiche lo Stato ha il dovere di imporre una solidarietà che protegga il bene collettivo, Becchi mette in discussione tale approccio, vedendo in questa una giustificazione morale per ridurre l’autonomia individuale e un pericolo che minaccia di trasformare le democrazie occidentali in sistemi paternalistici, che sacrificano la libertà in nome di una presunta sicurezza collettiva. È al cittadino che si rivolge la riflessione di Becchi, affinché metta in discussione la propria percezione della normalità e rifletta con coscienza sul concetto di libertà. 
Lo strumento che Becchi ritiene più consono per rivendicare questa dimensione di libertà per l’individuo è la disobbedienza civile, già caldeggiata da Thoreau e Arendt, i quali sottolineano come la disobbedienza nasca quando i cittadini percepiscono che i consueti meccanismi di cambiamento non sono più funzionali o che le loro istanze vengono ignorate. È un concetto supportato anche dalle parole di Howard Zinn, che Becchi cita a sostegno dell’idea che i fenomeni più orribili della storia non siano stati causati dalla disobbedienza, bensì dalla cieca obbedienza. La disobbedienza va quindi intesa, prima che come un atto di protesta, come un’opzione morale per il cittadino, una forma di resistenza contro l’assuefazione e l’accettazione passiva di norme restrittive.
Nell’appendice, Becchi introduce un riflessivo cambio di prospettiva, titolando “Perché i poeti?”. Ispirandosi al poeta Hölderlin, e al suo celebre verso “Wozu Dichter in dürftiger Zeit” (“perché i poeti in tempi di privazione”), l’autore offre una rilettura che si adatta al panorama attuale. Nel vuoto esistenziale che vede attorno a sé, il poeta è una voce dissonante che può ancora portare un barlume di umanità in un contesto dominato da regole e standardizzazioni. I poeti diventano dunque i testimoni di un dolore collettivo che, lungi dal voler offrire soluzioni immediate o risposte tecniche, rappresenta un atto di resistenza che rifiuta il silenzio e l’omologazione. 
La prosa di Becchi, mai incline alla semplificazione o all’estremismo, si muove in quella “scala di grigi” che rifugge gli assoluti, ma che non teme di osare e dissentire, in un’ambiguità che funge da specchio alla complessità del tempo presente. È in questa zona di confine che risiede la potenza delle sue idee, nell’abilità di denunciare e al contempo stimolare la riflessione sulla natura del potere e sui limiti della democrazia contemporanea. Mentre la polarizzazione sembra ormai ovunque diffusa, Becchi adotta una via più complessa: non rifiuta la necessità di sicurezza e protezione, ma spinge a riflettere sul prezzo che siamo disposti a pagare, interrogandoci su quanto la società sia in grado di accettare in termini di limitazione delle libertà individuali. In una società che sembra cedere alla seduzione del controllo, il vero atto rivoluzionario è forse mantenere intatta la capacità di dubitare, di non abbassare mai lo sguardo di fronte alle ombre che ci circondano. 

 

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