Cultura

“La favola dell’amore che non esiste”, il paradosso di un sentimento imperfetto

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Che cos’è l’amore, se non il più grande paradosso della nostra esistenza? È insieme creazione e distruzione, una forza che ci eleva e ci consuma. Lo inseguiamo come un miraggio, convinti che sarà la risposta a ogni nostra domanda, e poi, quando lo troviamo, ci accorgiamo che non basta mai. È il sogno più dolce e l’incubo più crudele, una promessa che spesso non siamo in grado di mantenere. Eppure, continuiamo a cercarlo, perché è nella sua imperfezione che troviamo il riflesso della nostra umanità. “La favola dell’amore che non esiste”, il primo romanzo di Gianpiero Bessone per il Gruppo Albatros il Filo, è un racconto che non ha eroi né antieroi, ma persone. Esseri umani con le loro contraddizioni, le loro piccole speranze e i grandi fallimenti in uno spazio di silenzi e domande sospese. Ambientato in una Torino che sembra respirare insieme ai suoi protagonisti, il romanzo mette a confronto due coppie, quella di Federico e Vittoria e quella di Rossella e Fermo, offrendoci una riflessione stratificata sulle molteplici sfumature dell’amore e delle sue conseguenze. Se i primi rappresentano l’amore logorato dalla routine e dalle aspettative irrealizzate, Rossella e Fermo incarnano una dinamica differente, segnata dal peso delle scelte irresponsabili, dalla dipendenza emotiva e dalla vulnerabilità di fronte agli imprevisti della vita. 
Gianpiero Bessone scruta il rapporto tra queste due coppie con una sensibilità che mette a nudo le loro fragilità senza mai giudicarle. Federico e Vittoria ci parlano dell’usura del tempo e delle aspettative, Rossella e Fermo della disillusione e del peso delle scelte sbagliate. In entrambi i casi, l’amore è una forza ambivalente: capace di unire e distruggere, di offrire conforto e infliggere dolore. Ogni protagonista porta con sé una ferita nascosta, un rimpianto sussurrato, una paura che emerge tra le righe, fino a diventare specchi nei quali il lettore può riconoscere le proprie ombre. L’attenzione ai dettagli psicologici emerge in modo naturale dalla narrazione, sempre senza giudizio: la lente attraverso cui l’autore osserva i suoi personaggi è empatica e apre un varco alla comunicazione con il lettore, che a sua volta ha l’occasione di riflettere sulle proprie esperienze e confrontarsi con i propri sentimenti. 
Lo stile di Bessone fonde poesia e prosa in un equilibrio delicato, dove ogni frase sembra contenere un mondo intero. La descrizioni diventano protagoniste silenziose della narrazione, specchi dello stato d’animo dei personaggi, mentre le immagini sensoriali lasciano immergere il lettore in ogni scena, che diventa quasi palpabile a livello fisico, oltre che emotivo. Le piccole interazioni quotidiane tra i personaggi, un abbraccio alla stazione, un caffè condiviso in un bar rumoroso o un breve scambio di sguardi durante una passeggiata, vengono dipinte con una precisione quasi cinematografica. È in questi dettagli apparentemente ordinari che emerge la capacità di Bessone di raccontare l’intimità dell’esperienza umana. Alle descrizioni ben si accosta l’uso sapiente dei dialoghi, veri e propri strumenti di introspezione. Le battute sono cariche di significato, frammenti di un pensiero più grande e complesso. In essi si esprimono le insicurezze e le speranze dei personaggi, ma anche il confronto tra visioni opposte della vita che si intrecciano in legami che, pur logorati, non si spezzano mai del tutto. Dopo la tempesta degli eventi più tumultuosi, come a spezzare il ritmo affinché il lettore riprenda fiato, l’autore inserisce delle pause di meditazione, che permettono al lettore di riempire i silenzi con le proprie emozioni e interpretazioni. È un romanzo che non ha paura di rallentare e soffermarsi sui dettagli, di indugiare su un momento per esplorarne tutte le sfumature. 
“La favola dell’amore che non esiste” racchiude in sé una lunga serie di paradossi già a partire dal titolo. L’amore, spesso idealizzato come il sentimento perfetto che può salvarci o completarci, è invece presentato come un’illusione che non esiste, o perlomeno non nella forma che ci viene promessa dalle narrazioni tradizionali. La favola d’amore viene smentita sin dal principio, lasciando intravedere il vero focus del romanzo: non il mito dell’amore ideale, ma la sua realtà complessa, fragile e spesso dolorosa. Bessone sceglie di portare il lettore oltre la superficie delle convenzioni romantiche per esplorare ciò che accade quando le aspettative costruite intorno all’amore si infrangono contro la realtà. Non c’è spazio per il lieto fine classico, non ci sarà alcun “vissero per sempre felici e contenti”, ma solo personaggi imperfetti che, attraverso le loro relazioni, ci mostrano come l’amore sia un processo fatto di compromessi, disillusioni e scelte difficili. La favola si sgretola sotto il peso della routine, mostrando che anche l’amore più sincero può trasformarsi, perdere forza e diventare altro. Non si tratta, tuttavia, di un’illusione che ci inganna, ma di un mito da reinterpretare, accettando che l’amore reale raramente coincide con quello idealizzato. 
La prosa di Bessone porta con sé un bagaglio ricco e articolato di influenze letterarie, artistiche e culturali. Possiamo ritrovare nel suo romanzo il riflesso della grande tradizione letteraria europea, con una tensione particolare verso autori come Marcel Proust e Thomas Mann. In particolare, la cura nella costruzione dei dialoghi e delle riflessioni dei personaggi rivela un’adesione a una tradizione letteraria che pone al centro la complessità dell’anima e delle relazioni. Anche l’arte visiva e la musica sono altrettanto significative: brani di Chopin e di Edith Piaf emergono dalla narrazione e accompagnano alcuni dei momenti più emozionanti della storia. 
Nonostante le storie delle protagoniste femminili prendano una piega inaspettata per entrambe, il loro percorso non si esaurisce insieme alle loro relazioni, ma si proietta verso una riconciliazione con sé stesse e con l’idea dell’amore: “Era chiaro come lei avesse attraversato lo Stige e ne fosse ritornata mutata, non avrebbe potuto essere altrimenti. Eppure era altret­tanto forte il desiderio istintivo, irrazionale, di recuperare il passato, forse per un desiderio di serenità, di protezione che la metteva al riparo da altri naufragi, asciugarsi sulla sabbia, ridotta in stracci ma viva”, leggiamo in un passaggio particolarmente toccante del romanzo. Il coraggio delle donne non risiede nel rifiuto del passato, ma nella capacità di guardarlo con occhi nuovi, trasformando la sofferenza in uno strumento per evolversi. L’amore, dopotutto, non è l’assenza di dolore, ma la volontà di affrontarlo, di accettarne le ombre per poter scoprire la luce. 
La conclusione di “La favola dell’amore che non esiste” ci esorta a smettere di cercare risposte negli assoluti, accettando che l’amore, come la vita, non si lascia incasellare. Gianpiero Bessone sembra dirci che non è l’amore perfetto a definire chi siamo, ma il modo in cui ci confrontiamo con le sue contraddizioni. Il romanzo ci lascia con l’immagine di un cammino, non di una meta. Non c’è redenzione definitiva, né risposte che cancellino il dolore: c’è solo un continuo tentativo di accettare l’imperfezione, propria e altrui. Le luci si spengono con un senso di possibilità per il lettore, non quella delle favole, ma quella più sottile e fragile che abita ogni nuovo inizio. Bessone non ci promette finali, ci lascia invece la libertà di immaginarli. 
In fondo, è l’amore stesso a non essere perfetto, né definitivo o totalmente compreso. È la favola imperfetta che tutti viviamo, tra speranze, paure e il desiderio di ricominciare. Forse è proprio questa imperfezione a renderlo reale, capace di toccare le corde più profonde di chiunque si conceda di viverlo. 
 

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