bLo specchio rappresenta uno strumento fondamentale nel nostro percorso di crescita. Ci ritroviamo di fronte ad esso non soltanto per guardarci, ma per chiederci: chi sono davvero? L’immagine riflessa spesso non basta a rispondere.
L’infanzia di Federico è segnata da una tensione profonda e dolorosa tra il modo in cui percepiva sé stesso e quello in cui veniva percepito dagli altri. Il mondo attorno a lui, intriso di convenzioni tradizionali e aspettative rigide, non riusciva a comprendere la complessità della sua identità, che emergeva con forza fin dai primi anni di vita. Federico non si sentiva una bambina, nonostante fosse chiamato con un nome femminile e trattato come tale dalla famiglia. Ogni gesto, ogni gioco, diventa così per lui un atto di affermazione di sé. Uno degli episodi più significativi della sua infanzia è racchiuso nell’immagine del guerriero di plastica, che ancora oggi lo rappresenta. Un giorno, quando Federico era ancora bambino, travestito con una busta della spazzatura come armatura e un pentolino come elmo, si presenta al padre dichiarando: “Sono un guerriero!”. La risposta del padre è sprezzante: “Sei un guerriero di plastica”. Ma Federico non si lascia intimidire e ribatte con fierezza. “Di plastica sì, ma di plastica buona, però!”. Questo scambio è una dichiarazione di identità, la metafora di una apparente fragilità che può in fretta trasformarsi in una forza straordinaria.
È durante l’adolescenza che la metamorfosi del corpo segna l’acuirsi di un conflitto già evidente durante l’infanzia: il suo corpo inizia a trasformarsi secondo le aspettative biologiche e sociali di una ragazza, mentre il suo io interiore rimane saldamente ancorato ala sua identità maschile. I cambiamenti fisici sono un assedio quotidiano al suo senso di sé, che ampliano un dolore che non può più essere ignorato né mascherato. Quel corpo che dovrebbe essere un rifugio, un tempio, si trasforma in una prigione: Michela, la ragazza che tutti vedono e dentro cui è imprigionato Federico, è talmente ingombrante di fronte allo specchio da non lasciargli spazio, da rischiare di annichilirlo. La ribellione contro questo corpo si accompagna a un sogno: modellarlo secondo la propria immagine interiore. È una speranza, un progetto, un obiettivo perseguito con ostinazione e sacrificio. Federico, “guerriero di plastica buona”, non è indistruttibile, ma è capace di resistere e adattarsi, senza mai spezzarsi.
È una fase della vita che Federico affronta non senza momenti di disperazione. In un contesto storico e sociale che lo giudica e lo isola, Federico si sente un’anomalia, un errore da correggere. Ma è proprio in questo abisso di dolore che matura la sua decisione: il corpo non è destino, è un elemento da plasmare. Questa consapevolezza diventa la scintilla per il lungo e faticoso percorso di transizione che intraprenderà, trasformando la sua sofferenza in una forza capace di riscrivere il proprio futuro. È in questo momento che Federico impara che la bellezza e l’armonia non si trovano nel conformarsi, ma nel creare uno spazio in cui la mente e il corpo possano finalmente dialogare.
Il percorso di Federico si colloca nel contesto storico e sociale italiano degli anni Sessanta e Settanta, caratterizzato da una scarsa consapevolezza e comprensione delle tematiche legate all’identità di genere, pressocché inesistenti nel dibattito pubblico e, quando affrontate, spesso lo erano in termini negativi o patologizzanti. Oggi il panorama è cambiato significativamente, nonostante ci sia ancora molta strada da percorrere. In Italia esistono percorsi di transizione di genere più strutturati, le legge 164 del 1982 ha permesso la rettifica di attribuzione di sesso, inoltre, l’accesso a informazioni e risorse è notevolmente migliorato. Tuttavia, nonostante i progressi, la burocrazia legata alla transizione di genere può essere complessa e onerosa e i pregiudizi sociali continuano ad essere ostacoli concreti. Inoltre, l’accesso ai servizi sanitari adeguati non è uniforme su tutto il territorio nazionale e ciò crea disparità nel supporto disponibile. Il percorso di Federico, quindi, pur essendo profondamente personale, riflette le esperienze di molte persone che hanno vissuto in periodi e contesti di incomprensione e ostilità.
Federico Arimondi sceglie un linguaggio diretto, e al tempo stesso evocativo. Gli episodi del suo passato sono raccontati con dettagli che immergono il lettore nel suo vissuto quotidiano: i momenti di isolamento, i dialoghi, i piccoli gesti di ribellione che diventano atti di coraggio. Lo sguardo di Arimondi è molto lucido, quando si tratta dei ricordi: considera ogni esperienza che ha plasmato la sua identità e la offre al lettore, affinché ossa provare a riflettere sulla propria. Il registro è fluido e si adatta alle diverse fasi del racconto: più asciutto e frammentato nei momenti di dolore, più ampio e riflessivo nei passaggi dedicati alla scoperta e alla crescita. È un ritmo che avvolge il lettore e lo conduce attraverso un percorso che non è più soltanto quello di Federico, ma una riflessione sull’identità in tutte le sue sfumature.
È l’amore la forza salvifica e rivoluzionaria di “Ti parlo di noi”, un elemento che accompagna Federico e rende più lieve il suo cammino di autodeterminazione. Pilastro fondamentale della sua esperienza è Eleonora, l’ancora e la guida nei momenti più difficili. Al contrario di tutti gli altri, Eleonora non vede Michela, la figura che il mondo impone a Federico: vede solo lui, il suo io più autentico, e lo accoglie senza riserve. È anche grazie a lei, che presto diventa sua moglie, che Federico trova la forza di ricostruire sé stesso, per essere finalmente in pace con la propria verità.
La storia di Federico Arimondi ci invita a sostare nelle crepe, negli interstizi tra ciò che siamo e ciò che il mondo si aspetta che siamo. Non offre risposte definitive, ma sprona verso una consapevolezza: non esiste un’identità predefinita, ma solo il continuo divenire di ciò che scegliamo di essere. Accogliere l'altro e sé stessi non significa solo riconoscere ciò che appare evidente, ma abbracciare anche ciò che non comprendiamo. Arimondi non pretende che il mondo lo capisca del tutto, ma chiede una sospensione del giudizio, un’apertura al dubbio, quel margine di silenzio in cui può germogliare l’empatia.
Quando si chiude questo libro, non si ha la sensazione di aver trovato risposte, ma di aver incontrato un interlocutore. Ti parlo di noi non è un punto fermo, ma un inizio, una domanda che continua a risuonare: cosa significa, davvero, essere liberi?