(ANSA) - PALERMO, 16 SET - "Adesso sto bene, in Italia ho
studiato e ho anche un lavoro che mi piace e una casa. Ma quei
giorni trascorsi a bordo della nave che ci aveva salvato non
potrò mai dimenticarli".
Oggi Musa ha 20 anni, ne compirà 21 il mese prossimo. Vive in
Sicilia dove è stato assunto, con un contratto regolare, presso
un rifornitore di carburante: "Insomma non sono un clandestino,
ho un lavoro, una casa, tanti sogni ancora da realizzare, a
cominciare dal mio sport preferito, il calcio..." racconta il
giovane intervistato dall'ANSA.
Musa è assistito da Serena Romano, avvocato di parte civile,
che lo segue nel processo sul caso Open Arms, per il quale la
procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per l'ex
ministro degli Interni, Matteo Salvini, accusato di sequestro di
persona e rifiuto di atti d'ufficio. "Alla prossima udienza
discuteremo di lui, di quello che ha vissuto in quei terribili
giorni - annuncia l'avvocato - quasi certamente sarà presente in
aula".
Il viaggio della speranza di Musa, che oggi è riuscito a
ricostruirsi una vita, comincia a 12 anni, quando parte dal suo
paese insieme allo zio. Un anno dopo è già recluso nelle
prigioni libiche. "Non auguro a nessuno. meno che mai a un
bambino, di vivere quello che ho vissuto io" confida al suo
legale. Da quelle prigioni, nelle quali ha subito torture
terribili e ogni tipo di sevizie, ne esce solo quando ha quasi
16 anni. "Mio zio è stato liberato prima di me, ma è morto in
mare mentre tentava la traversata verso l'Italia", racconta.
Musa resta solo, una volta liberato dal campo di detenzione
in Libia decide comunque di partire, di portare a termine quel
viaggio che aveva intrapreso quattro anni prima nonostante il
terrore di morire in mare come lo zio. A salvare il ragazzo del
Gambia sono invece gli "angeli" dalla Open Arms, che soccorrono
il barcone sul quale viaggia. L'odissea di Musa sembra finita, e
invece le cose si complicano. Alla Ong spagnola viene negato il
permesso di approdare a Lampedusa per 19 lunghissimi giorni,
anche se le donne e i minori vengono fatti scendere dalla nave
due giorni prima della decisione dell'allora Procuratore di
Agrigento Luigi Patronaggio che ordina lo sbarco. "Restare tutto
questo tempo a bordo della nave è stato un supplizio - racconta
Musa - abbiamo sofferto tanto, soprattutto avevamo il terrore di
essere riportati in Libia".
"Quei giorni interminabili, in attesa dell'ok per lo sbarco,
hanno aggravato ulteriormente le sue paure - tiene a precisare
il suo difensore - la tutrice di Musa mi racconta che anche
adesso non riesce a guardare il mare. Quell'esperienza, insieme
alla morte dello zio, lo ha traumatizzato lasciando un segno
indelebile nel suo animo". La speranza, per l'avvocato Romano, è
che finalmente "si possa ottenere giustizia, che ci sia una
condanna per Salvini. Non importa se per sei anni, quattro anni
o per sei mesi. Nessuno deve più permettersi di trattare altri
esseri umani in questo modo". (ANSA).
Musa, 'la mia odissea a bordo della Open Arms'
Il racconto di un ragazzo del Gambia che oggi lavora in Sicilia