Sicilia

Musa, 'la mia odissea a bordo della Open Arms'

Il racconto di un ragazzo del Gambia che oggi lavora in Sicilia

Open Arms arrives in Lampedusa

Redazione Ansa

(ANSA) - PALERMO, 16 SET - "Adesso sto bene, in Italia ho studiato e ho anche un lavoro che mi piace e una casa. Ma quei giorni trascorsi a bordo della nave che ci aveva salvato non potrò mai dimenticarli". A ricostruire l'odissea vissuta a bordo della Open Arms, quando nell'agosto del 2019 venne impedito per 19 giorni alla Ong spagnola di sbarcare a Lampedusa i migranti soccorsi, è Musa, un giovane gambiano che allora non aveva ancora compiuto 16 anni. Uno dei minori non accompagnati che erano a bordo della nave della Ong spagnola.
    Oggi Musa ha 20 anni, ne compirà 21 il mese prossimo. Vive in Sicilia dove è stato assunto, con un contratto regolare, presso un rifornitore di carburante: "Insomma non sono un clandestino, ho un lavoro, una casa, tanti sogni ancora da realizzare, a cominciare dal mio sport preferito, il calcio..." racconta il giovane intervistato dall'ANSA.
    Musa è assistito da Serena Romano, avvocato di parte civile, che lo segue nel processo sul caso Open Arms, per il quale la procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per l'ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio. "Alla prossima udienza discuteremo di lui, di quello che ha vissuto in quei terribili giorni - annuncia l'avvocato - quasi certamente sarà presente in aula".
    Il viaggio della speranza di Musa, che oggi è riuscito a ricostruirsi una vita, comincia a 12 anni, quando parte dal suo paese insieme allo zio. Un anno dopo è già recluso nelle prigioni libiche. "Non auguro a nessuno. meno che mai a un bambino, di vivere quello che ho vissuto io" confida al suo legale. Da quelle prigioni, nelle quali ha subito torture terribili e ogni tipo di sevizie, ne esce solo quando ha quasi 16 anni. "Mio zio è stato liberato prima di me, ma è morto in mare mentre tentava la traversata verso l'Italia", racconta.
    Musa resta solo, una volta liberato dal campo di detenzione in Libia decide comunque di partire, di portare a termine quel viaggio che aveva intrapreso quattro anni prima nonostante il terrore di morire in mare come lo zio. A salvare il ragazzo del Gambia sono invece gli "angeli" dalla Open Arms, che soccorrono il barcone sul quale viaggia. L'odissea di Musa sembra finita, e invece le cose si complicano. Alla Ong spagnola viene negato il permesso di approdare a Lampedusa per 19 lunghissimi giorni, anche se le donne e i minori vengono fatti scendere dalla nave due giorni prima della decisione dell'allora Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio che ordina lo sbarco. "Restare tutto questo tempo a bordo della nave è stato un supplizio - racconta Musa - abbiamo sofferto tanto, soprattutto avevamo il terrore di essere riportati in Libia".
    "Quei giorni interminabili, in attesa dell'ok per lo sbarco, hanno aggravato ulteriormente le sue paure - tiene a precisare il suo difensore - la tutrice di Musa mi racconta che anche adesso non riesce a guardare il mare. Quell'esperienza, insieme alla morte dello zio, lo ha traumatizzato lasciando un segno indelebile nel suo animo". La speranza, per l'avvocato Romano, è che finalmente "si possa ottenere giustizia, che ci sia una condanna per Salvini. Non importa se per sei anni, quattro anni o per sei mesi. Nessuno deve più permettersi di trattare altri esseri umani in questo modo". (ANSA).
   

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